Di fronte alle due recenti opere del maestro Sartini, raffiguranti Papa Giovanni XXIII e Papa Giovanni Paolo II, i due Papi Santi, si rimane ancora una volta sbalorditi, per la prodigiosità della sua arte. Ma ancora una volta viene da sorridere nell’ascoltare alcuni che rimangono entusiasti a vedere queste opere perché, a loro dire, sono “perfette come una fotografia!” Credo sia essenziale fare chiarezza su questo punto; infatti, pur nella straordinaria somiglianza delle persone ritratte, queste opere non hanno nulla a che vedere con la fotografia. La fotografia, intrappolando il presente assoluto, stigmatizza il mondo (per utilizzare le parole di Spinoza) come natura naturata; invece i dipinti di Sartini sono natura naturans e, pur “dicendo tutto” sulla figura ritratta, escono fuori dalla condizione segnica indicale divenendo segni iconici di un percorso vitale che sintetizza, in una visione sinottica, il lento divenire di un’esistenza, come corpo e come anima, cogliendo il rapporto, spesso complesso, tra questi due aspetti della vita. La fotografia, che ha un altro statuto semantico, non può fare nulla di tutto questo! Sartini attribuisce maggior valore al fenomeno così come si dà ai sensi che alla nozione che si ha delle cose. Egli cioè non ha un’idea priori sull’oggetto che dipinge; quindi il suo percorso prende le mosse da ciò che si vede con gli occhi e non parte mai da ciò che si sa dell’oggetto, anche quando si è trattato di dipingere (ed è accaduto molte volte) ritratti di persone famose. La natura rivela i suoi sensi profondi attraverso l’esperienza umana. Questa relazione profonda, vitale, tra natura e humanitas, costituisce la “poesia” di Sartini. Il riferimento alla cultura classica, al Rinascimento, è senz’altro un elemento fondante dell’arte di Sartini ma il suo umanesimo non è imitazione dell’antico ma assimilazione di un’esperienza che si proietta nel presente. Sembra evidente in lui la necessità che la fase di elaborazione interiore si traduca nell’incontro con la realtà naturale a un livello in cui questa fa sentire, nel puro dato di visione, i suoi significati profondi, senza tuttavia dichiararli, perché diventerebbero mondana illustrazione; mentre vuole solo far sentire la “sostanza” che si nasconde dietro la sembianza. E solo quando egli giunge alla simultaneità di tutte le “note”, l’esperienza della realtà che si svela dipingendo, velatura su velatura, può dirsi compiuta. La conoscenza qui oltrepassa i confini del “tangibile” e, senza percorrere vie intimiste e/o individualiste, tende a stabilire un rapporto tra soggetto ed oggetto non semplicistico, sostanziandolo di tutte le molteplici verità dello spirito. La sua arte rivolge lo “slancio vitale” in primo luogo verso l’individuo, verso la sua anima. Egli parte dalla natura per arrivare alla sua massima espressione: l’uomo. La sua è una natura apparentemente arcana, come quella dei suoi “embriocosmo”. Ma questa materia primordiale non è magma informe o pulviscolo interstellare bensì una materia che si dipana, si articola, ruota e genera cerchi di luce avvolgente, generatori, a loro volta di mondi che si intersecano e si combinano per creare altri mondi. Tutto ci appare come prodotto di una razionalità irraggiungibile e divina. Il cerchio è una forma semplice ma è allo stesso tempo la forma geometrica dell’infinito, quella che più si avvicina a Dio. Il cerchio, infatti, pur nella sua finitezza, contiene misteriosi numeri imponderabili! Gli embriocosmo sono allo stesso tempo il mistero della vita ma anche la sua rivelazione. E ci parlano della vita che si è evoluta sino all’uomo; di questa nostra vita terrestre prodotto di combinazioni e coincidenze complicatissime che è molto improbabile (come ci dicono molti scienziati, anche non credenti) si possano ricreare in altre parti dell’universo. Essa è, dunque, per tutti, un dono grandissimo. Sartini sa bene tutto questo; infatti egli pone al centro del suo “discorso” artistico l’uomo che è l’espressione più alta di questo miracolo; e lo rappresenta in maniera incorrotta, nella sua piena integrità fisica e morale non per negare la storia ma per ricordare a sé stesso e agli altri che tutti noi siamo un dono meraviglioso che non va sprecato. La sua morale e la sua fede è dunque così espressa: implicitamente, senza ammiccamenti o grida ma solo con la semplice e potente evidenza dei fatti. Sartini non ha seguito l’illusione post-moderna che sembra aver abolito i fatti preferendo le interpretazioni. Egli non vuole persuadere ma dimostrare con l’evidenza: vuole, “far parlare le cose da sé”. L’arte è per lui proprio questo: dare come evidenti, pienamente rivelate le verità della natura. Ma questa rivelazione non è data una volta per sempre ma si attua (e diventa verità nella nostra coscienza) in ogni momento della vita; per percepirla, per saperla cogliere abbiamo bisogno dell’arte: solo essa è in grado di intercettare certi nessi complessi, certi legami profondi andando oltre il tangibile. La centralità, ad esempio, che Sartini ha dato, nei suoi numerosi ritratti, non solo all’espressione della bocca o delle mani ma soprattutto degli occhi, sembra nata dalla necessità di trovare un “canale” diretto, chiaro (fuori da ogni psicologismo) con l’interiorità dell’essere: sono “occhi che ragionano”, sono indice della complessità dell’esistenza di ciascuno di noi. Attraverso gli occhi dei due Santi ritratti, ad esempio, cogliamo due grandi esistenze che hanno cambiato il mondo: occhi dolci ma fieri, profondi, espressione di una grande forza tranquilla quelli di Papa Giovanni; occhi “intraprendenti”, sottilmente ironici, determinati ma aperti quelli di Papa Woityla. Sartini rivive dentro di sé la luce di quegli occhi e ce la restituisce, attraverso un filtro aureo, in un modo tale che essi sembrano risplendere di una luce propria, interna. L’oggetto per lui, non è un pretesto per dire altro; è un punto di partenza e di arrivo e il “viaggio” si svolge dentro la sua anima tesa a fissare “l’anima” della cosa ritratta. La materia sì addensa e si stempera a rendere più sottile il gioco dell’illusione visiva. Il pennello si fa minuto, analitico, rigoroso ed essenziale. Il colore, calmo e moderato, pur vibrando nell’atmosfera tersa, definisce con chiarezza la struttura dello spazio. I contorni delle figure sono leonardescamente lievemente sfumati affinché appaiano immersi in una atmosfera imponderabile ma non priva di densità e movimento. La sua indagine scrupolosa si muove lungo due poli estremi, rendendola, per certi aspetti, enigmatica: toccare il “fondo” della cosa ritratta o il limite estremo del suo manifestarsi. Chi, davanti all’opera di Sartini, pensasse ad una sorta di naturalismo imperniato su un vero da collocare in una tipologia accattivante, rischierebbe di non intendere affatto quali tesori di grazia, freschezza, di stupori antichi e sempre nuovi si compendiano nel registro pittorico dell’artista. Sartini non vuole sbalordirci con la “meraviglia” della tecnica ma fare della tecnica uno strumento funzionale all’idea, alla poesia che vuole esprimere e che deve trovare un suo strumento. La sua tecnica è strepitosa perché ciò che lui vuole ottenere e comunicarci è un gioco sottile teso ad intelaiare il vasto contrappunto degli indugi contemplativi e del colloquio trasfigurante, i rapimenti memoriali e l’epopea affettuosa del quotidiano. Le sue opere sono un idillio venato di sottile elegia che si fa caldo e sapiente. Con il flusso incorrotto dell’emozione, con la garanzia di un mestiere agguerrito che organizza e disciplina nel modo più congruo le coordinate della visione. E’, questa di Sartini, una pittura collegata insistentemente all’uomo totale, da godere senza mediazioni illegittime, nella cadenza delle sue comunicabili armonie.