Sarebbe come dire De Chirico uguale Velázquez, Sciltian come Tiziano. Proprio perché ai Grandi Archetipi non si sfugge, ad essi sempre si torna, sempre ci s’ispira. Tredici a tavola, una tovaglia immacolata. Il Pane. Il Vino. Il Calice. Dodici storie diverse, dodici pescatori ignari e perplessi o attenti e devoti o distratti e tormentati. Una tavola imbandita, e nessuno che mangi un boccone, o che l’abbia appena fatto, o che si appresti a farlo. Un’Anfora, un Cratere, un Bacino con l’Asciugatoio, tutto il Vangelo riassunto in pochi oggetti. Povere tuniche tessute sui telai casalinghi, coperte di poco prezzo gettate sulle spalle come toghe d’un rustico senato: una banda di galilei spiantati, anacronisticamente seduti a tre tavoli d’artigiano (contate le zampe delle rustiche “capre” che li sostengono: sono sei, quindi tre piani di legno avvicinati e coperti dalla tovaglia per arrivare alla lunghezza voluta, per metterne tredici a mensa: una scelta all’origine di una cosa che non si fa più per non sfidare la legge di Murphy). Un povero cane che non c’entra nulla e che a giudicare da quel che è servito per cena, sarà grassa se dovrà accontentarsi di un boccone di pane e di un pezzetto di pecorino: roba che un gatto non degnerebbe neppure, anzi scapperebbe – coda e pelo dritti, zampe levate – come quello dell’Annunciazione di Lorenzo Lotto, gentile eppur diabolico famulus domestico della ragazzina scelta ab aeterno, “termine fisso d’Eterno Consiglio”.
E poi c’è Lui, silente, un attimo prima di pronunziare le Parole che cambieranno la storia e che obbligheranno per sempre l’Onnipotente a scendere e penetrare un pezzo di pane e un po’ di vino ogni volta che un povero peccatore che abbia ricevuto sulle mani il Segno ordini a Lui, al Creatore di Tutto, di trasformare in Carne e in Sangue – quella Carne, quel Sangue – le due povere vivande frutto del lavoro dell’uomo. Lui, che può tutto e che pure teme la morte come qualunque altro figlio di mamma rivestito di carne tremula. Lui, cinto del nimbo delle Divinità induiste e dei Gran Re persiani, le mani bellissime che hanno guarito e consolato e che saranno presto trafitte dai chiodi, la coppa destinata a diventar leggenda anzi mito – dal medio evo fino a Wagner e oltre – appena sfiorata dalla Sua destra. E tutto è lì, compresente e concentrato. E tutto scompare: la storia, la filologia, la biblistica, l’archeologia, l’antropologia, le citazioni, i plagi, i ricordi, i rimorsi, la speranza, il dolore. E quando noialtri poveri cristianucci rifacciamo questo in memoria di Lui, ogni domenica, più o meno distratti e annoiati, ripensando magari all’amore di routine che abbiamo fatto stanotte o al cappuccino e al giornale che ci aspettano fuori dalla Chiesa, se solo sapessimo, se solo avessimo capito, se solo per un’istante riuscissimo ad avere quel tanto di fede grande come un grano di sènape, la nostra vita cambierebbe per sempre e grideremmo di gioia e di Terrore, e danzeremmo come satiri folli e mènadi impazzite, e il tempo scomparirebbe e tutto sarebbe nostro.
Di “Gesù a tavola” hanno sempre parlato in parecchi: storici, filosofi, filologi, teologi, biblisti, psicanalisti, archeologi, studiosi della gastronomia e perfino grandi chefs. Perché no, in fondo? Il cibo sta alla base della vita e ha per questo un ruolo importante, quanto meno simbolico, in tutte le religioni del mondo.
I Vangeli (e atteniamoci ai soli quattro canonici) danno molto spazio a questo tema: e del resto il cristianesimo si fonda simbologicamente e sacramentalmente su alcuni alimenti-base, pane e vino prima di tutto (ma anche olio, pesci, agnelli e vitelli grassi). E viene qui ribadito il legame strettissimo con l’Antico Testamento, la Bibbia ebraica: che al pari dei poemi omerici profuma di pane caldo, di vino spumoso, d’olio rilucente, di carni arrostite, di caci freschi ben pressati nei canestri di palma o di vimini o di corda. D’altronde, è il caso di cominciare con una sia pur pedante precisazione. Dalle nozze di Cana di Galilea (oggi il villaggio arabo di Kafr Kanna) all’Ultima Cena, dal banchetto in casa di Simone il lebbroso al desco di Emmaus, siamo in effetti abituati a vedere il Signore assiso a tavola: e le grandi tradizioni pittoriche medievale, rinascimentale, manierista e barocca ci hanno abituato a immagini di gran tavolate talora principesche, talaltra rustiche. Inutile pensare alle austere immagini di un Ghirlandaio nel refettorio della fiorentina chiesa francescana di Ognissanti o di un Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano, a proposito delle quali si è a lungo disputato sulla natura e sulla qualità dei cibi pasquali – o di quelli quaresimali, che talora mischiati ad essi a loro volta compaiono – in rapporto alle tradizioni kosher alle quali Gesù era in realtà fedelissimo. Riflettiamo ancora, su certe immagini di Gesù in casa di Maria e di Marta: nelle quali, in primo piano, ecco Marta indaffarata con pesci e spicchi d’aglio per preparare la salsa aïoli, come si ammira nella tela di Diego Velázquez conservata alla National Gallery di Londra; oppure ecco, trionfalmente in primo piano, la “natura morta” culinaria, con l’immenso coscio d’agnello troneggiante, come nel dipinto dell’olandese Pieter Aertsen, del 1552, al Kunsthistorisches Museum di Vienna; ancora poca cosa, del resto, in confronto con la colossale, pantagruelica scena della preparazione di un immenso arrosto di carni rosse e di cacciagione che occupa tutto il primissimo piano della tela del cinquecentesco Joachim Beuckelaer, conservata al Musée d’Art Ancien di Bruxelles, dove Gesù e gli altri commensali stanno su uno sfondo minuscolo, quasi monocromo. Gesù aveva affettuosamente rimproverato la buona Marta che pur tanto si affannava a servirlo: ma i pittori del Cinque-Seicento non hanno in cambio occhio se non per lei e per la sua ben curata cucina.
Eppure – e arriviamo alla precisazione – c’è ben poco di attendibile in tutto ciò. Tralasciamo gli ambienti caldi e fumosi delle cucine continentali europee, che con i modestissimi forni o focolari del Vicino Oriente antico (e anche moderno) hanno ben poco a che fare. Tutta la pittura sacra cristiana, tra medioevo e Ottocento, rigurgita di anacronismi. E uno di essi è proprio la tavola: un uomo mediterraneo-orientale, coevo del Signore, sarebbe impallidito dinanzi a quel lugubre oggetto, a quel piano di legno alto su quattro zampe, che tanto ricordava il letto sepolcrale su cui si preparavano le salme. Gesù, come tutti i suoi conterranei dell’epoca, era abituato a mangiare accosciato su tappeti mentre le pietanze gli venivano poste dinanzi in grossi piatti disposti su stuoie o, al massimo, su bassissimi tavolinetti. D’altronde si discute sulla penetrazione nel mondo ebraico del tempo delle abitudini connesse con il triclinium romano, che prevedeva appunto una tavola centrale circondata per tre parti da giacigli sui quali si mangiava distesi: improbabilissimo che il banchetto di nozze di Cana di Galilea, in una festa familiare tutta rustica, si sia svolto secondo quell’abitudine straniera; ma la cena suntuosa di Simone il lebbroso può avere avuto questo carattere, se l’anfitrione era abbastanza uso ai costumi dell’occupante o abbastanza animato da spiriti collaborazionistici, oppure se, ligio invece alle tradizioni israelite più pure, aveva voluto mettere alla prova quel singolare maestro che sosteneva di esser venuto per adempiere alle Scritture ma non esitava poi a colpire qualunque espressione di rispetto formale ed esteriore della Legge.
Nella scena dell’Ultima Cena – a proposito della quale si discute se davvero e fino a che punto essa abbia potuto rispecchiare la consuetudine rituale del Seder ebraico – , protagonisti della tavola sono non già l’agnello arrostito secondo la tradizione inaugurata da Mosè nell’Esodo (e che pur rimane il simbolo cristico fondamentale, l’Agnus Dei qui tollit peccata mundi) bensì l’azzimo e il vino che pure nel rituale ebraico restano a loro volta di centrale importanza: anche se nei riti cristiano-orientali si è preferito poi sostituire al “giudaizzante” pane non lievitato quello nel quale il lievito simbolizza lo Spirito che anima il pane, vale a dire la carne divina. Se l’ebraismo è la Legge che si esprime nel sacrificio dell’agnello, il sangue del quale, segnando la soglia dei figli d’Israele li qualifica come eletti del Signore, il cristianesimo è la Fede dell’amore per la carne e il sangue del Redentore simbolizzati dal – ma sacramentalmente identificati nel – grano-pane e dall’uva-vino, carne e sangue della terra.
Ma a parte l’occasione pasquale, Gesù amava sedere a mensa: lo riconosceva lui stesso, addirittura osservando che i suoi detrattori avrebbero ben potuto accusarlo di essere un crapulone. Il miracolo delle nozze di Cana, dove rovescia il canone procedurale dei pranzi importanti facendo sì che – come osserva il maestro di tavola- il vino migliore sia servito alla fine e non all’inizio del pranzo (e la trasformazione dell’acqua – così importante nei rituali delle abluzioni ebraiche – in vino indica già che la Legge ebraica sta per essere superata), non è solo manifestazione epifanica e al tempo stesso prefigura eucaristica, bensì anche segno di una carità che si esprime in termini di eccellenza sul piano del gusto e della qualità.
Ovviamente, i Vangeli non sono né un libro di cucina né un manuale di gastronomia. Le abitudini di Gesù a tavola – o meglio, fra stuoie, tappeti e triclini – restano quelle semplici dei pescatori e degli artigiani del tempo: pani d’orzo, pesci arrostiti (uno di essi è quello che egli consuma per dare ai discepoli la prova di essere davvero risorto, non apparizione fantasmatica), cibi che non sempre vengono descritti in quanto con ogni evidenza appartenevano alla quotidianità della dieta degli ebrei del tempo. Con tanto di osservazione della kosherut, che verrà messa da parte dopo la visione di Pietro descritta negli Atti degli Apostoli ma alla quale invece Gesù e i suoi compagni mostravano di tenere, come bene si vede nella famosa scena dei pescatori che, tratte le reti sulla riva del lago di Tiberiade, separano i pesci “buoni” da quelli “cattivi”, che ributtano in acqua (laddove l’aggettivo “buoni” non riguarda qualità o sapore, bensì la compatibilità con le norme del Levitico e del Deuteronomio che considerano ad esempio “puro”, e quindi mangiabile senza timore di contaminazione, solo il pesce dotato di scaglie). D’altronde il pesce, dal suo nome greco ichthùs che forma l’acronimo delle parole Iesous Christòs Theou Uiòs Sotèr (“Gesù, il Messia – cioè l’Unto del Signore – Figlio di Dio, Salvatore”), era destinato a divenire ai tempi delle persecuzioni uno dei simboli appunto di Gesù, e come tale rimanere per sempre (proprio a Tabgha, sul lago di Tiberiade, un mosaico paleocristiano mostra insieme i pesci e i pani, ricordo del miracolo della moltiplicazione ma al tempo stesso anche simboli soterici ed eucaristici).
La credenza popolare che i pesci non si ammalino (“sano come un pesce”), oppure le molte leggende popolari – che attingono anche ad antichi miti ellenici – dei pesci morti che tornano a guizzare e dalla spiaggia si rituffano gioiosi in mare derivano non solo dall’associazione tra il pesce e l’elemento per definizione purificatore, quindi battesimale, ma anche da quella tra il pesce e il Salvatore, colui che elargisce la salute dell’anima di cui quella del corpo è simbolo, così come al contrario le malattie – secondo la Bibbia soprattutto la lebbra – sono simbolo del peccato.
Alcune sostanze comunemente presenti nel racconto evangelico, pur essendo commestibili e anzi magari basilari nella dieta degli ebrei – e dei romani – del tempo, non vengono però menzionate come alimenti. Il sale, ad esempio, è ricordato da Gesù solo in quanto simbolo del sapore spirituale degli eletti dinanzi al resto del mondo; l’olio è – come nella splendida sura 24 del Corano, detta “An-Nûr”, “la Luce”, al versetto 35 – simbolo della sapienza e della luce divina perché alimento non tanto dei corpi umani quanto delle lampade, quindi destinato anzitutto a rischiarare; il miele e il fico rimandano all’idea di dolcezza a sua volta indicata come simbolo dei dolci doni di Dio.
Richiamando all’umile destino del cibo, che esaurito il suo vitale compito di procurare energia al corpo finisce quindi nella latrina. Gesù non intende d’altronde per nulla svalutare questo antico e prezioso compagno dell’uomo: bensì ricordare semmai che, come è vero che è il sabato a essere stato istituito a vantaggio dell’uomo e non è l’uomo che deve vivere per il sabato, così gli alimenti servono al corpo, non questo a quelli. Nell’austerità di questo richiamo risiede il nucleo originario di un valore che l’ascesi cristiana svilupperà anche in termini di astinenza e di penitenza in parte estranei alla tradizione ebraica e desunti semmai da tradizioni mistiche ellenistico-orientali. «Non di solo pane vive l’uomo», replica Gesù dopo quaranta giorni di digiuno allo spirito venuto a tentarlo. Ma il pane – e con esso tutti i frutti della terra e del lavoro dell’uomo – resta non di meno tanto importante, per lui e per noi, ch’egli se ne ricorda insegnando ai discepoli l’orazione principale del fedele.
L’elargizione del pane quotidiano è, insieme con la remissione dei peccati e la richiesta di protezione dal male, il nucleo delle preghiere che noi rivolgiamo ogni giorno al Padre, dopo averne santificato il nome, auspicato il regno e reso omaggio alla volontà. In tempi di sprechi alimentari diffusi e di fame che attanaglia centinaia di milioni di poveri in tutto il mondo, quella semplice preghiera, che in troppi recitiamo distrattamente, acquista un valore abissale, un significato terribile. Ma Ulisse Sartini, raccontando la “sua” Ultima Cena, delle tradizioni pasquali ebraiche e della lettera evangelica non si cura se non per quel tanto di messaggio archetipo che ne discende.
La sua è un’atemporalità non divina bensì umana, l’unica che a noi umani è dato di conseguire: l’atemporalità rappresentata dall'”eterno presente”, quello dei gesti, degli sguardi, delle vesti e dei cibi senza storia in quanto la scena rappresentata è di quelle (pochissime) che per un istante trascendono la storia, la sintetizzano vanificandola, l’annullano dandole un senso, il senso definitivo. Come un istante del dottor Faust (Verweile doch! Du bist so schön!) che non preluda però, dopo il suo arcano battito di ciglia, alla dannazione eterna, bensì sfoci nella Luce senza tramonto e senza confine.
E l’umano “eterno presente”, quello nostro e della nostra sensibilità, è quello d’una purezza nella quale convergono miti precristiani e suggestioni orientali, sogni irenistici e nostalgie adamitiche. Una tavola dalla quale la morte e il sacrificio cruento, che pure fanno – e con ragione – intrinsecamente parte della mensa festiva ebraica come di quella omerica, sono rigorosamente banditi. Una mensa che sarebbe respinta dal cistercense Bernardo di Clairvaux come dai nostri ragazzi vegani, data la presenza di uova, di caci e di ricotte. Una mensa da “dieta mediterranea”, direbbe il solito fan della banalità a tutti i costi; o magari perfino salutista e new age. Una mensa umana-troppo-umana, della vita-solo-vita, dalla quale sono banditi il ricordo del sangue e del fuoco (a dirla con Lévi-Strauss qui il crudo prevale nettamente sul cotto, con le mezze eccezioni del pane e dei prodotti caseari che d’un po’ di fiamma e di fuoco hanno pur bisogno). Una mensa augurale per tutto il genere umano, dalla quale viene abolito tutto quel che può essere tabù per uno qualunque degli invitati e che, un po’ come le cerimonie interreligiose di Assisi, sia fatta per unificare tutti eliminando quel che è sacrosanto in sé, ma confrontato con l’altrui può esser causa di fraintendimento e di divisione. Non è proprio il “genti diverse, venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale”, secondo la scettica riflessione che De André presta, nei suoi Vangeli apocrifi, al buon Tito. E’ piuttosto la visione profetica di Nicola Cusano, la pentecostale ed apocalittica visione di tutti i popoli di ogni tempo e di ogni luogo prostrati ai piedi del Trono di Dio al quale ciascuno di essi è pervenuto seguendo passo dietro passo le parole e i segni della sua tradizione espressi nel suo proprio linguaggio.