ULISSE SARTINI

Ultima Cena - Ulisse Sartini

L’ULTIMA CENA

2015 | 180 x 500 | OLIO SU TELA

Collocazione: Basilica Cattedrale di Piacenza
Cappella di Santa Caterina e Sant’Orsola

TESTI CRITICI

Stefano Zuffi – 2016 | Storico e critico d’arte

Una grande sfida nel segno della pittura
Secondo una vecchia battuta, dopo Raffaello non si sarebbero più dovute dipingere Madonne. Per fortuna, da mezzo millennio a questa parte, i pittori hanno accettato la sfida. La storia dell’arte non funziona come alcuni sport, dove, per rispetto a un grande campione uscito di scena, il numero della sua maglia viene ritirato dalla squadra, e non viene più assegnato ad altri.
Nessun soggetto può essere considerato esaurito, esplorato in modo definitivo: anzi, proprio i temi più classici si rivelano capaci di suggerire sempre nuovi scenari, soluzioni inedite, ponti continuamente gettati tra la storia e l’attualità. In questo senso, l’arte sacra è il terreno più delicato ma insieme più promettente, come è stato pienamente dimostrato dalla vitalità espressiva del Novecento e dall’attenzione dedicata alle arti figurative da parte di alcuni grandi pontefici in tempi recenti.Secondo una vecchia battuta, dopo Raffaello non si sarebbero più dovute dipingere Madonne. Per fortuna, da mezzo millennio a questa parte, i pittori hanno accettato la sfida. La storia dell’arte non funziona come alcuni sport, dove, per rispetto a un grande campione uscito di scena, il numero della sua maglia viene ritirato dalla squadra, e non viene più assegnato ad altri. Nessun soggetto può essere considerato esaurito, esplorato in modo definitivo: anzi, proprio i temi più classici si rivelano capaci di suggerire sempre nuovi scenari, soluzioni inedite, ponti continuamente gettati tra la storia e l’attualità. In questo senso, l’arte sacra è il terreno più delicato ma insieme più promettente, come è stato pienamente dimostrato dalla vitalità espressiva del Novecento e dall’attenzione dedicata alle arti figurative da parte di alcuni grandi pontefici in tempi recenti.
D’altra parte, il confronto con le soluzioni espressive e con i capolavori del passato è inevitabile. E’ possibile, per un artista contemporaneo, affrontarlo senza cadere nell’ovvia imitazione, nella semplice e poco interessante copia dell’antico, o, peggio, a banalizzazioni devozionali? In un passato non troppo lontano, per l’arte di soggetto sacro la strada più praticata è stata quella dell’astrazione, del simbolo, del rimando evocativo. Ci sono stati alcuni risultati affascinanti e di indubbia potenza in pittura come in scultura: tuttavia, soprattutto dopo il tramonto della stagione dell’informale, il ricorso all’astrazione, al simbolo criptico da decifrare, è diventato in molti casi un modo per evitare il paragone con una tradizione dal peso schiacciante.
Per diversi decenni del secondo Novecento, bisogna ammetterlo, un approccio figurativo ai grandi temi dell’arte sacra è stato decisamente difficile, raro e controverso. Forse una svolta importante è stata impressa dalla video-art: penso in particolare alle installazioni di Bill Viola. Il poter ricorrere a un mezzo espressivo non disponibile nel passato ha rimesso in gioco il tema, l’immagine, la figurazione anche per le arti visive tradizionali.
Nel ritorno convinto e convincente a un’arte sacra figurativa, a partire dagli anni ’90 del Novecento il contributo offerto da Ulisse Sartini è stato determinante. E’ importante dire subito che nella produzione dell’artista piacentino la chiara, serena, forte proposta figurativa è una scelta espressiva che si confronta e si combina anche con l’opzione astratta e simbolica della serie degli Embriocosmo. In altri termini, Sartini ha esplorato a lungo i territori dell’astrazione, con coerenza ed intensità, fino a dare vita a cicli pittorici di intensa suggestione, un humus creativo in cui si avverte il palpito della vita pulsante, dell’infinita varietà del possibile. E’ un’espressione personale e molto caratterizzata, che l’artista (come vedremo) ha sempre ben presente anche quando prende la strada di una figurazione esplicita, alta, nobile, che è stata giustamente definita “aulica”. Partendo dai celebri, spettacolari ritratti di personalità internazionali, proseguendo con le affascinanti riflessioni sul tema del corpo umano e del volto angelico, la pittura di Sartini è infine approdata alla grande sfida con la storia: le tele di grandi dimensioni, le pale di altare, le immagini dei santi, i temi millenari dell’arte sacra.

La realizzazione di una monumentale Ultima Cena (2015) è senza dubbio un momento culminante nella maturazione di un linguaggio formale che si ancora saldamente alle tecniche e alle soluzioni della storia, ma che è del tutto indipendente, libero e creativo. Il percorso dell’artista trova qui una sintesi espressiva di assoluta potenza, un punto decisivo nella definizione di uno stile ormai inconfondibile. Sartini ha trovato un equilibrio prezioso: i suoi quadri propongono una piena, tangibile “attualità” di volti ed espressioni, ma il contesto generale (gli oggetti, gli abiti, gli accenni ambientali) è volutamente “senza tempo”.
E’ pertanto pienamente legittimo che Sartini si confronti, oggi, con i grandi modelli della storia della pittura. Concepire una Ultima Cena su scala grandiosa, e predisporla a essere esposta nella Sacrestia bramantesca di Santa Maria delle Grazie a Milano, praticamente di fianco al cenacolo leonardesco, è segno di un compiuto, consapevole esito stilistico.
Realizzato per evidenti ragioni pratiche su tre tele separate, ma ovviamente concepito come composizione unitaria, il grandioso dipinto di Sartini non è affatto una replica o una derivazione dal prototipo di Leonardo. L’unico riferimento potrebbe essere la posizione di tutte e tredici le figure dietro un lungo tavolo a cavalletti, parallelo al piano dell’immagine, così come la suddivisione simmetrica degli Apostoli in due gruppi di sei, ai lati della figura centrale di Cristo. Ma si tratta di una soluzione compositiva frequente, che non indica necessariamente un “omaggio” al Cenacolo vinciano.
Uno degli esercizi prediletti dagli storici dell’arte è la “caccia al tesoro”, la ricerca di modelli, di citazioni, di riferimenti al passato. Una versione colta del “corvo parlante” o dell'”aguzzate la vista” della Settimana Enigmistica. Per questo stimolante esercizio visivo, il caso di Sartini è davvero interessantissimo. A prima vista, a colpo d’occhio, si ha come l’impressione di aver già incontrato nell’arte qualche espressione, qualche gesto, qualche soluzione compositiva, la scelta della luce, un dettaglio narrativo…
Si respira insomma un aria di alta, selezionata accademia. Ma poi, quando si prova a definire con chiarezza quelli che vengono chiamati con una parola sgradevole i “debiti” nei confronti di modelli precisi, si resta sinceramente interdetti. Con molto garbo, Sartini ci ha teso un gustoso tranello intellettuale: a parte alcuni casi espliciti, le sue opere non ripetono mai l’eco di dipinti o sculture dei secoli precedenti. Pur frugando a lungo nella memoria, e andando avanti e indietro nella pittura del Rinascimento e del Barocco, non sono riuscito a trovare nessun riferimento diretto per i personaggi o per gli oggetti acutamente raffigurati della sua Ultima Cena. Ho proposto un rimando ad un dipinto di Giovan Gerolamo Savoldo per la testa ed in parte anche per il gesto dell’accorato Pietro, l’Apostolo più anziano, con la folta barba grigia. Il pittore ha annuito con educazione, ma non mi ha confermato esplicitamente il rimando, confidando semmai che per quasi tutte le figure della scena si è ispirato a persone reali, amici, conoscenti. Persino il simpatico cagnolino sulla sinistra (che Sartini ha inserito nella composizione come rimando visivo alle parole del dialogo evangelico tra Cristo e la Cananea) è quello che il pittore incontra sul pianerottolo, al guinzaglio di una vicina. E quanto al vaso ansato che si trova al centro della composizione e sembra evocare dottamente il manierismo toscano, Sartini mi ha mostrato il modello… su uno scaffale di casa sua.
Si tratta, in sintesi, di una grande scena classica, ambientata in uno spazio e in un tempo indefiniti, dove avvertiamo la presenza della storia ma solo come radice, come struttura di base per una composizione che si rivela invece intensamente attuale. E viene da chiedersi se questo sentimento non si limiti all’aspetto della pittura, ma non sia invece anche un modo per intendere e per comprendere i soggetti. Ricordando la meravigliosa immagine del Vangelo in cui il Regno dei Cieli è paragonato a un padrone di casa che “estrae dal suo scrigno cose nuove e cose antiche” (Matteo, XIII, 52).

Sorretto da una tecnica impressionante e da una notevole cultura visiva, Sartini frequenta oramai da tempo i temi dell’arte sacra; la sua interpretazione figurativa si basa da un lato sullo stile, dall’altro su una lettura libera e profonda dei testi. Non mancano riferimenti del tutto originali, come l’Embriocosmo all’estrema destra, insieme a chiari rimandi visivi che appartengono al lessico dell’iconografia cristiana: il bacile con l’asciugamano richiama alla mente la Lavanda dei piedi, l’ampia anfora a destra evoca le giare delle Nozze di Cana (si noti come, a parte il calice di Cristo, non sia visibile altro vino sulla tavolata), il ramo di palma il preannuncio del martirio e insieme la memoria dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme.
L’Ultima Cena andrebbe più esattamente, ma forse in modo troppo debole, intitolata “Istituzione dell’Eucarestia”. Le fonti evangeliche sono sostanzialmente due: dal testo di Giovanni si ricavano le immagini più intensamente animate, con la tempesta di gesti e di sgomento scaturito dall’annuncio “Uno di voi mi tradirà!”. E’ questa, fra l’altro, la scelta drammatica di Leonardo, con il desiderio di raffigurare i “moti dell’anima” che scuotono profondamente gli Apostoli. Il testo di Matteo sembra invece essere quello scelto da Sartini. Cristo, frontale, è circonfuso da un’aura di luce soprannaturale con cui viene staccato e distinto da tutti gli altri personaggi, compreso Giovanni, che appoggia la testa sulla spalla di Cristo in un misto di dolcezza e tristezza. Con gli occhi aperti, in piena serenità e calma, Cristo mostra il calice e benedice il pane. E’ il momento mistico e sentimentale sancito dalle parole: “prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo”. Gli Apostoli, intensamente caratterizzati, si lasciano permeare nel profondo del cuore dall’annuncio. Giuda, il terz’ultimo personaggio a destra, si alza in piedi ed è l’unico a girare le spalle a Cristo; voltandosi verso il fondo scuro della tela, rivela allo spettatore un dettaglio molto particolare. In alto, quasi nell’angolo, Sartini ha infatti raffigurato in penombra un Embriocosmo, la forma astratta evanescente e insieme densa con cui il pittore allude a uno Spirito creatore. Sul lato opposto della scena, sopra le figure degli ultimi due Apostoli sulla sinistra, lo sfondo del dipinto ospita un’altra apparizione celeste: un cerchio di dodici stelle, allusione alla Vergine Maria, non presente fisicamente nella scena.

Sartini adotta un raffinato sistema di luci. La fonte principale è identificabile sulla sinistra, e lo dimostrano le leggere ombre dei recipienti e dei cibi sulla tovaglia candida, con un realistico effetto radente che non può non ricordare Caravaggio. Non c’è tuttavia un’unica sorgente di luce: i personaggi sono messi in piena evidenza anche da un illuminazione frontale, che Sartini mette virtuosisticamente in evidenza esplorando l’epidermide lucida, le barbe brizzolate, i capelli o le stempiature degli Apostoli. Un altro dettaglio rivelatore è la coppa di vetro con le grosse olive verdi collocata davanti al braccio di Giovanni. A parte pochi frutti rosseggianti collocati verso le estremità opposte della tavolata (i melograni a sinistra, le mele a destra), la gamma dei colori è sapientemente armonizzata sui toni smorzati, tenui. Una gamma di bianchi, grigi, bruni, e verdi di grandissima eleganza. La scena si dipana cosi in modo continuo e fluente, senza improvvise accensioni cromatiche, invita a lasciar scorrere l’occhio tra le figure e gli oggetti, tra gli sguardi e i piatti, riconoscendo nei particolari la preziosa abilità del pittore nel modellare le diverse materie. Sartini stimola il nostro senso del tatto, evocando di volta in volta la morbidezza della stoffa, il pane croccante, il formaggio cremoso, le opache terraglie, la superficie porosa della uova, il metallo lucido e brunito del vaso a destra, la fragile trasparenza dell’ampollina, e così via. Sartini utilizza in modo completo le risorse di una tecnica impeccabile, che attinge alla tradizione rinascimentale, e che si spinge decisamente in avanti nella ricerca della mimesis, la riproduzione accurata della realtà fino ai limiti dell’inganno dell’occhio.
Un aspetto importante, anche non immediatamente percepito, è la forte espressività delle mani. E’ il pittore stesso ad indicare questa scelta: tutti i personaggi hanno le mani in piena evidenza, e il gioco delle luci ne potenzia la gestualità evidente e diretta. Un sola delle ventisei mani è nascosta, la destra dell’Apostolo all’estremità del tavolo: tutte le altre sono in azione, ciascuna di loro comunica emozioni, rispecchia stati d’animo, denota l’età o la forza fisica dei personaggi. E’ anche un modo per scandire il ritmo della composizione, per creare un flusso continuo di azione che si muove in modo centripeto lungo due direttrici, dall’esterno verso il centro della composizione, fino a chiudersi in un fitto incrocio, quasi un cerchio vibrante, intorno a Cristo.
Per selezionare i volti e le espressioni dei personaggi Sartini ha compiuto un ampio processo di bozzetti, di studi, di prove. La serie degli studi, grandi fogli lavorati in sanguigna e in pastello, potrebbe costituire di per se un’autonoma, forte galleria di ritratti, anche se l’artista ha sempre ben presente la gestione dell’insieme, la composizione monumentale e coerente. L’energia delle espressioni e dei gesti viene sottolineata dalla stesura modulata, densa e dettagliata nei volti, volutamente sfumata nel contesto ambientale. Il rapporto diretto con i modelli, prima della stesura finale del dipinto, rivela un aspetto parzialmente inaspettato dell’iter esecutivo. Nella redazione pittorica prevale un approccio meditato, sorretto da uno stile di grande controllo; nei bozzetti grafici si scopre la capacità di cogliere al volo uno scatto, uno sguardo, un movimento immediato. Un rapporto dinamico con la realtà, fase indispensabile nel processo creativo.
Il risultato finale combina una salda gestione della composizione con una pungente identificazione di ogni singola figura, in una scena di coinvolgente freschezza e di grande varietà visiva. La palpabile, immediata verità fisionomica e psicologica di ciascuna figura si accompagna a una scansione ben ritmata dello spazio e della composizione: è un “nuovo classico” che si offre alla pittura sacra del XXI secolo.

Franco Cardini – 2016

Storico medievista e critico d’arte

Da Cana a Emmaus, il convivio e l’arte del miracolo
E’ fin troppo evidente: è molto più che evidente. E’ ovvio, è palese, è banale, è lapalissiano. Roba che ti verrebbe voglia di non dirla nemmeno (si, vabbè, Leonardo …), ma che se non la dici poi c’è un sacco di gente che si stupisce (come: e Leonardo, allora!…). On ne badine pas avec da Vinci. Infatti, non c’entra nulla.
Sarebbe come dire De Chirico uguale Velázquez, Sciltian come Tiziano. Proprio perché ai Grandi Archetipi non si sfugge, ad essi sempre si torna, sempre ci s’ispira. Tredici a tavola, una tovaglia immacolata. Il Pane. Il Vino. Il Calice. Dodici storie diverse, dodici pescatori ignari e perplessi o attenti e devoti o distratti e tormentati. Una tavola imbandita, e nessuno che mangi un boccone, o che l’abbia appena fatto, o che si appresti a farlo. Un’Anfora, un Cratere, un Bacino con l’Asciugatoio, tutto il Vangelo riassunto in pochi oggetti. Povere tuniche tessute sui telai casalinghi, coperte di poco prezzo gettate sulle spalle come toghe d’un rustico senato: una banda di galilei spiantati, anacronisticamente seduti a tre tavoli d’artigiano (contate le zampe delle rustiche “capre” che li sostengono: sono sei, quindi tre piani di legno avvicinati e coperti dalla tovaglia per arrivare alla lunghezza voluta, per metterne tredici a mensa: una scelta all’origine di una cosa che non si fa più per non sfidare la legge di Murphy). Un povero cane che non c’entra nulla e che a giudicare da quel che è servito per cena, sarà grassa se dovrà accontentarsi di un boccone di pane e di un pezzetto di pecorino: roba che un gatto non degnerebbe neppure, anzi scapperebbe – coda e pelo dritti, zampe levate – come quello dell’Annunciazione di Lorenzo Lotto, gentile eppur diabolico famulus domestico della ragazzina scelta ab aeterno, “termine fisso d’Eterno Consiglio”.
E poi c’è Lui, silente, un attimo prima di pronunziare le Parole che cambieranno la storia e che obbligheranno per sempre l’Onnipotente a scendere e penetrare un pezzo di pane e un po’ di vino ogni volta che un povero peccatore che abbia ricevuto sulle mani il Segno ordini a Lui, al Creatore di Tutto, di trasformare in Carne e in Sangue – quella Carne, quel Sangue – le due povere vivande frutto del lavoro dell’uomo. Lui, che può tutto e che pure teme la morte come qualunque altro figlio di mamma rivestito di carne tremula. Lui, cinto del nimbo delle Divinità induiste e dei Gran Re persiani, le mani bellissime che hanno guarito e consolato e che saranno presto trafitte dai chiodi, la coppa destinata a diventar leggenda anzi mito – dal medio evo fino a Wagner e oltre – appena sfiorata dalla Sua destra. E tutto è lì, compresente e concentrato. E tutto scompare: la storia, la filologia, la biblistica, l’archeologia, l’antropologia, le citazioni, i plagi, i ricordi, i rimorsi, la speranza, il dolore. E quando noialtri poveri cristianucci rifacciamo questo in memoria di Lui, ogni domenica, più o meno distratti e annoiati, ripensando magari all’amore di routine che abbiamo fatto stanotte o al cappuccino e al giornale che ci aspettano fuori dalla Chiesa, se solo sapessimo, se solo avessimo capito, se solo per un’istante riuscissimo ad avere quel tanto di fede grande come un grano di sènape, la nostra vita cambierebbe per sempre e grideremmo di gioia e di Terrore, e danzeremmo come satiri folli e mènadi impazzite, e il tempo scomparirebbe e tutto sarebbe nostro.
Di “Gesù a tavola” hanno sempre parlato in parecchi: storici, filosofi, filologi, teologi, biblisti, psicanalisti, archeologi, studiosi della gastronomia e perfino grandi chefs. Perché no, in fondo? Il cibo sta alla base della vita e ha per questo un ruolo importante, quanto meno simbolico, in tutte le religioni del mondo.
I Vangeli (e atteniamoci ai soli quattro canonici) danno molto spazio a questo tema: e del resto il cristianesimo si fonda simbologicamente e sacramentalmente su alcuni alimenti-base, pane e vino prima di tutto (ma anche olio, pesci, agnelli e vitelli grassi). E viene qui ribadito il legame strettissimo con l’Antico Testamento, la Bibbia ebraica: che al pari dei poemi omerici profuma di pane caldo, di vino spumoso, d’olio rilucente, di carni arrostite, di caci freschi ben pressati nei canestri di palma o di vimini o di corda. D’altronde, è il caso di cominciare con una sia pur pedante precisazione. Dalle nozze di Cana di Galilea (oggi il villaggio arabo di Kafr Kanna) all’Ultima Cena, dal banchetto in casa di Simone il lebbroso al desco di Emmaus, siamo in effetti abituati a vedere il Signore assiso a tavola: e le grandi tradizioni pittoriche medievale, rinascimentale, manierista e barocca ci hanno abituato a immagini di gran tavolate talora principesche, talaltra rustiche. Inutile pensare alle austere immagini di un Ghirlandaio nel refettorio della fiorentina chiesa francescana di Ognissanti o di un Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano, a proposito delle quali si è a lungo disputato sulla natura e sulla qualità dei cibi pasquali – o di quelli quaresimali, che talora mischiati ad essi a loro volta compaiono – in rapporto alle tradizioni kosher alle quali Gesù era in realtà fedelissimo. Riflettiamo ancora, su certe immagini di Gesù in casa di Maria e di Marta: nelle quali, in primo piano, ecco Marta indaffarata con pesci e spicchi d’aglio per preparare la salsa aïoli, come si ammira nella tela di Diego Velázquez conservata alla National Gallery di Londra; oppure ecco, trionfalmente in primo piano, la “natura morta” culinaria, con l’immenso coscio d’agnello troneggiante, come nel dipinto dell’olandese Pieter Aertsen, del 1552, al Kunsthistorisches Museum di Vienna; ancora poca cosa, del resto, in confronto con la colossale, pantagruelica scena della preparazione di un immenso arrosto di carni rosse e di cacciagione che occupa tutto il primissimo piano della tela del cinquecentesco Joachim Beuckelaer, conservata al Musée d’Art Ancien di Bruxelles, dove Gesù e gli altri commensali stanno su uno sfondo minuscolo, quasi monocromo. Gesù aveva affettuosamente rimproverato la buona Marta che pur tanto si affannava a servirlo: ma i pittori del Cinque-Seicento non hanno in cambio occhio se non per lei e per la sua ben curata cucina.
Eppure – e arriviamo alla precisazione – c’è ben poco di attendibile in tutto ciò. Tralasciamo gli ambienti caldi e fumosi delle cucine continentali europee, che con i modestissimi forni o focolari del Vicino Oriente antico (e anche moderno) hanno ben poco a che fare. Tutta la pittura sacra cristiana, tra medioevo e Ottocento, rigurgita di anacronismi. E uno di essi è proprio la tavola: un uomo mediterraneo-orientale, coevo del Signore, sarebbe impallidito dinanzi a quel lugubre oggetto, a quel piano di legno alto su quattro zampe, che tanto ricordava il letto sepolcrale su cui si preparavano le salme. Gesù, come tutti i suoi conterranei dell’epoca, era abituato a mangiare accosciato su tappeti mentre le pietanze gli venivano poste dinanzi in grossi piatti disposti su stuoie o, al massimo, su bassissimi tavolinetti. D’altronde si discute sulla penetrazione nel mondo ebraico del tempo delle abitudini connesse con il triclinium romano, che prevedeva appunto una tavola centrale circondata per tre parti da giacigli sui quali si mangiava distesi: improbabilissimo che il banchetto di nozze di Cana di Galilea, in una festa familiare tutta rustica, si sia svolto secondo quell’abitudine straniera; ma la cena suntuosa di Simone il lebbroso può avere avuto questo carattere, se l’anfitrione era abbastanza uso ai costumi dell’occupante o abbastanza animato da spiriti collaborazionistici, oppure se, ligio invece alle tradizioni israelite più pure, aveva voluto mettere alla prova quel singolare maestro che sosteneva di esser venuto per adempiere alle Scritture ma non esitava poi a colpire qualunque espressione di rispetto formale ed esteriore della Legge.
Nella scena dell’Ultima Cena – a proposito della quale si discute se davvero e fino a che punto essa abbia potuto rispecchiare la consuetudine rituale del Seder ebraico – , protagonisti della tavola sono non già l’agnello arrostito secondo la tradizione inaugurata da Mosè nell’Esodo (e che pur rimane il simbolo cristico fondamentale, l’Agnus Dei qui tollit peccata mundi) bensì l’azzimo e il vino che pure nel rituale ebraico restano a loro volta di centrale importanza: anche se nei riti cristiano-orientali si è preferito poi sostituire al “giudaizzante” pane non lievitato quello nel quale il lievito simbolizza lo Spirito che anima il pane, vale a dire la carne divina. Se l’ebraismo è la Legge che si esprime nel sacrificio dell’agnello, il sangue del quale, segnando la soglia dei figli d’Israele li qualifica come eletti del Signore, il cristianesimo è la Fede dell’amore per la carne e il sangue del Redentore simbolizzati dal – ma sacramentalmente identificati nel – grano-pane e dall’uva-vino, carne e sangue della terra.
Ma a parte l’occasione pasquale, Gesù amava sedere a mensa: lo riconosceva lui stesso, addirittura osservando che i suoi detrattori avrebbero ben potuto accusarlo di essere un crapulone. Il miracolo delle nozze di Cana, dove rovescia il canone procedurale dei pranzi importanti facendo sì che – come osserva il maestro di tavola- il vino migliore sia servito alla fine e non all’inizio del pranzo (e la trasformazione dell’acqua – così importante nei rituali delle abluzioni ebraiche – in vino indica già che la Legge ebraica sta per essere superata), non è solo manifestazione epifanica e al tempo stesso prefigura eucaristica, bensì anche segno di una carità che si esprime in termini di eccellenza sul piano del gusto e della qualità.
Ovviamente, i Vangeli non sono né un libro di cucina né un manuale di gastronomia. Le abitudini di Gesù a tavola – o meglio, fra stuoie, tappeti e triclini – restano quelle semplici dei pescatori e degli artigiani del tempo: pani d’orzo, pesci arrostiti (uno di essi è quello che egli consuma per dare ai discepoli la prova di essere davvero risorto, non apparizione fantasmatica), cibi che non sempre vengono descritti in quanto con ogni evidenza appartenevano alla quotidianità della dieta degli ebrei del tempo. Con tanto di osservazione della kosherut, che verrà messa da parte dopo la visione di Pietro descritta negli Atti degli Apostoli ma alla quale invece Gesù e i suoi compagni mostravano di tenere, come bene si vede nella famosa scena dei pescatori che, tratte le reti sulla riva del lago di Tiberiade, separano i pesci “buoni” da quelli “cattivi”, che ributtano in acqua (laddove l’aggettivo “buoni” non riguarda qualità o sapore, bensì la compatibilità con le norme del Levitico e del Deuteronomio che considerano ad esempio “puro”, e quindi mangiabile senza timore di contaminazione, solo il pesce dotato di scaglie). D’altronde il pesce, dal suo nome greco ichthùs che forma l’acronimo delle parole Iesous Christòs Theou Uiòs Sotèr (“Gesù, il Messia – cioè l’Unto del Signore – Figlio di Dio, Salvatore”), era destinato a divenire ai tempi delle persecuzioni uno dei simboli appunto di Gesù, e come tale rimanere per sempre (proprio a Tabgha, sul lago di Tiberiade, un mosaico paleocristiano mostra insieme i pesci e i pani, ricordo del miracolo della moltiplicazione ma al tempo stesso anche simboli soterici ed eucaristici).
La credenza popolare che i pesci non si ammalino (“sano come un pesce”), oppure le molte leggende popolari – che attingono anche ad antichi miti ellenici – dei pesci morti che tornano a guizzare e dalla spiaggia si rituffano gioiosi in mare derivano non solo dall’associazione tra il pesce e l’elemento per definizione purificatore, quindi battesimale, ma anche da quella tra il pesce e il Salvatore, colui che elargisce la salute dell’anima di cui quella del corpo è simbolo, così come al contrario le malattie – secondo la Bibbia soprattutto la lebbra – sono simbolo del peccato.
Alcune sostanze comunemente presenti nel racconto evangelico, pur essendo commestibili e anzi magari basilari nella dieta degli ebrei – e dei romani – del tempo, non vengono però menzionate come alimenti. Il sale, ad esempio, è ricordato da Gesù solo in quanto simbolo del sapore spirituale degli eletti dinanzi al resto del mondo; l’olio è – come nella splendida sura 24 del Corano, detta “An-Nûr”, “la Luce”, al versetto 35 – simbolo della sapienza e della luce divina perché alimento non tanto dei corpi umani quanto delle lampade, quindi destinato anzitutto a rischiarare; il miele e il fico rimandano all’idea di dolcezza a sua volta indicata come simbolo dei dolci doni di Dio.
Richiamando all’umile destino del cibo, che esaurito il suo vitale compito di procurare energia al corpo finisce quindi nella latrina. Gesù non intende d’altronde per nulla svalutare questo antico e prezioso compagno dell’uomo: bensì ricordare semmai che, come è vero che è il sabato a essere stato istituito a vantaggio dell’uomo e non è l’uomo che deve vivere per il sabato, così gli alimenti servono al corpo, non questo a quelli. Nell’austerità di questo richiamo risiede il nucleo originario di un valore che l’ascesi cristiana svilupperà anche in termini di astinenza e di penitenza in parte estranei alla tradizione ebraica e desunti semmai da tradizioni mistiche ellenistico-orientali. «Non di solo pane vive l’uomo», replica Gesù dopo quaranta giorni di digiuno allo spirito venuto a tentarlo. Ma il pane – e con esso tutti i frutti della terra e del lavoro dell’uomo – resta non di meno tanto importante, per lui e per noi, ch’egli se ne ricorda insegnando ai discepoli l’orazione principale del fedele.
L’elargizione del pane quotidiano è, insieme con la remissione dei peccati e la richiesta di protezione dal male, il nucleo delle preghiere che noi rivolgiamo ogni giorno al Padre, dopo averne santificato il nome, auspicato il regno e reso omaggio alla volontà. In tempi di sprechi alimentari diffusi e di fame che attanaglia centinaia di milioni di poveri in tutto il mondo, quella semplice preghiera, che in troppi recitiamo distrattamente, acquista un valore abissale, un significato terribile. Ma Ulisse Sartini, raccontando la “sua” Ultima Cena, delle tradizioni pasquali ebraiche e della lettera evangelica non si cura se non per quel tanto di messaggio archetipo che ne discende.
La sua è un’atemporalità non divina bensì umana, l’unica che a noi umani è dato di conseguire: l’atemporalità rappresentata dall'”eterno presente”, quello dei gesti, degli sguardi, delle vesti e dei cibi senza storia in quanto la scena rappresentata è di quelle (pochissime) che per un istante trascendono la storia, la sintetizzano vanificandola, l’annullano dandole un senso, il senso definitivo. Come un istante del dottor Faust (Verweile doch! Du bist so schön!) che non preluda però, dopo il suo arcano battito di ciglia, alla dannazione eterna, bensì sfoci nella Luce senza tramonto e senza confine.
E l’umano “eterno presente”, quello nostro e della nostra sensibilità, è quello d’una purezza nella quale convergono miti precristiani e suggestioni orientali, sogni irenistici e nostalgie adamitiche. Una tavola dalla quale la morte e il sacrificio cruento, che pure fanno – e con ragione – intrinsecamente parte della mensa festiva ebraica come di quella omerica, sono rigorosamente banditi. Una mensa che sarebbe respinta dal cistercense Bernardo di Clairvaux come dai nostri ragazzi vegani, data la presenza di uova, di caci e di ricotte. Una mensa da “dieta mediterranea”, direbbe il solito fan della banalità a tutti i costi; o magari perfino salutista e new age. Una mensa umana-troppo-umana, della vita-solo-vita, dalla quale sono banditi il ricordo del sangue e del fuoco (a dirla con Lévi-Strauss qui il crudo prevale nettamente sul cotto, con le mezze eccezioni del pane e dei prodotti caseari che d’un po’ di fiamma e di fuoco hanno pur bisogno). Una mensa augurale per tutto il genere umano, dalla quale viene abolito tutto quel che può essere tabù per uno qualunque degli invitati e che, un po’ come le cerimonie interreligiose di Assisi, sia fatta per unificare tutti eliminando quel che è sacrosanto in sé, ma confrontato con l’altrui può esser causa di fraintendimento e di divisione. Non è proprio il “genti diverse, venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale”, secondo la scettica riflessione che De André presta, nei suoi Vangeli apocrifi, al buon Tito. E’ piuttosto la visione profetica di Nicola Cusano, la pentecostale ed apocalittica visione di tutti i popoli di ogni tempo e di ogni luogo prostrati ai piedi del Trono di Dio al quale ciascuno di essi è pervenuto seguendo passo dietro passo le parole e i segni della sua tradizione espressi nel suo proprio linguaggio.

Giovanni Gazzaneo – 2016 | Critico d’arte

Ulisse Sartini, la vita in una tavola

Un eremita della tavolozza. Questo è Ulisse Sartini. Le sue giornate cominciano alle sei del mattino; il tempo di un caffè, ed eccolo…

Un eremita della tavolozza. Questo è Ulisse Sartini. Le sue giornate cominciano alle sei del mattino; il tempo di un caffè, ed eccolo all’opera in studio. «Per dodici ore a testa bassa sul cavalletto». Alle sue spalle lo splendido giardino pensile della casa milanese, ma per lui c’è solo la tela da iniziare, da correggere, da finire…
«Non credo nell’ispirazione – dice convinto -. L’arte è lavoro, sempre. Prima attraverso la conquista lunga, e a volte faticosa, delle tecniche e dei segreti del colore. Poi è esercizio quotidiano: lenta sovrapposizione di trasparenze su trasparenze e dominio della materia pittorica. Se il virtuosismo non è sufficiente perché si possa parlare di arte, è anche vero che non c’è creazione degna di questo nome senza la sapienza del fare. La tecnica è la prima condizione della libertà, la libertà di esprimersi». Altrimenti esiste solo il balbettio; quel saltellare tra “gioco” e “grido”, tra divertimento e denuncia, di tanta arte contemporanea che alla fine delude sempre, perché dietro la superficie non c’è proprio nulla. La falsa arte, incapace di cogliere il mistero e la sostanza dell’essere, di offrircelo con la potenza dell’intuizione poetica, si ferma all’illusione. Ma per quanto sofisticati possano essere i giochi di prestigio, alla fine stancano, perché dietro, anche se ben nascosto, c’è sempre il trucco. Sartini non si rassegna alla negazione dell’immagine e dell’umano, negazione che è all’origine di molte avanguardie storiche, ma anche delle vuote ripetizioni di nipoti e pronipoti di quelle avanguardie. Lui crede ancora nella visione, avverte la poetica e il dramma della realtà, ha sete di orizzonti. La vocazione di Sartini nasce da lontano. Nel 1949, in prima elementare, vince un concorso nazionale di pittura. Poi, agli inizi degli anni Settanta, eccolo a Milano; gli studi dal maestro Luigi Comolli, allievo di Segantini; l’amore e la frequentazione dei grandi maestri del Rinascimento; le prime personali. «Allora desideravo solo essere “moderno”»; in una declinazione che dall’«ossame spolpato di Henry Moore» giungeva fino all’astrazione geometrica su fondo rigorosamente bianco. «Era la negazione di quel che sapevo fare e di quello che sarei stato in futuro». E’ Filippo Schettini, suo primo gallerista (e gallerista di Crippa, Dova, Baj…), a invitarlo a cambiare prospettiva: dopo aver visto un autoritratto giovanile nelle vesti di Arlecchino aveva compreso che a quel talento non si poteva rinunciare. Da allora la pittura e l’immagine saranno per Sartini un orizzonte invalicabile. Con una predilezione per il ritratto e i soggetti religiosi.
«Maria Callas è stato il primo ritratto importante su commissione. Il marito lo volle per il Museo del Teatro alla Scala, dove viene collocato nel 1980. Per me, appassionato di lirica, è stata la gioia più grande. Quando il ritratto è riuscito, ecco la sintesi di corporeità e personalità, l’interiorità che si fa volto e sguardo».
Anche l’arte sacra è fondamentale nell’opera di Sartini. Sue opere sono collocate in una trentina di chiese, suoi sono i ritratti ufficiali degli ultimi tre Papi. «Dipingere per me è preghiera. Ed è motivo di commozione vedere le persone pregare dinanzi alle mie opere».
Altro caposaldo dell’opera di Sartini è il ciclo degli Embriocosmo: uno sguardo che lega insieme il miracolo del concepimento di una nuova vita umana e le origini dell’universo, omaggio alla potenza generatrice che squarcia il buio delle tenebre nel segno del mistero della luce e di un vorticoso e primigenio movimento circolare. Una prospettiva sull’Infinito che lo accompagna da oltre trent’anni, sia come opere autonome sia come orizzonte di alcuni suoi ritratti e nei lavori d’arte sacra. Gli Embriocosmo illuminano anche l’Ultima Cena, soggetto e oggetto di questo nostro volume, e soprattutto vertice del suo percorso artistico.

Se Ulisse Sartini vi aprirà le porte del suo studio, potrete ammirare alcune delle sue opere più belle e soffermarvi sulle foto che lo ritraggono con grandi personalità, da san Giovanni Paolo II alla regina d’Inghilterra. Ma non rinunciate a leggere quel florilegio di foglietti, che spuntano sui muri o sulla libreria. Una frase rivelatrice di Picasso – sul disgusto che provava nel realizzare certe opere, tanto più brutte quanto più apprezzate, solo per soddisfare la fame del mercato (e la sua sete di guadagno) – una preghiera di sant’Agostino, una frase di Pascal… E poi li cuore dell’Ulisse-pensiero e del suo essere pittore: respicio praeterita, aspicio presentia, prospicio futura, “osservo il passato, guardo il presente, scorgo il futuro”. In questa breve citazione di Adamus Scotus, nel nesso inscindibile dello scorrere del tempo (che poi è la sostanza stessa della vita degli uomini), si svela la coscienza dell’impossibilità di un’arte senza storia, dell’assurdità di una creazione che per essere tale esige di far terra bruciata di tutto ciò che era prima. «Penso che la mia modernità sia proprio quella di aver osato tornare alla grande lezione del Rinascimento e dell’arte veneta, di quei maestri che ho sempre sentito vicino come Moroni, Tiziano, Tintoretto». Sartini non teme, con forza e dignità, di confrontarsi con la grande arte del passato e, in questo dialogo, di offrirci codici iconografici e linguaggi per i nostri giorni.

Torniamo all’Ultima Cena, apice monumentale di un percorso artistico che si avvia al traguardo del mezzo secolo: quattro metri e novanta per un metro e ottanta di pittura e un anno di lavoro, il 2015. La tavolozza è ridotta all’essenziale. In questa grande opera, come in tutte le opere precedenti, Ulisse fa nascere le sue cromie da soli tre colori, il giallo, il blu e il rosso. Gli unici che usava il grande Tiziano. E cosi l’opera non presenta l’esplosione di colori del Veronese, ma ci offre una prospettiva più autentica sul miracolo eucaristico, cogliendo la semplicità della quotidianità del contesto e dell’amicizia che lega i protagonisti: una tavola, gli apostoli, al centro il Signore.
In tanti, anonimi e grandi maestri, hanno voluto affrontare quel momento della vita di Cristo. E su tutti Leonardo, che dell’Ultima Cena ha fatto l’icona delle icone. Questa esposizione propone un affascinante dialogo a distanza (in poche decine di metri, ma in un arco di cinque secoli) tra l’opera del Cenacolo e quella di Sartini collocata nella Sacrestia del Bramante.
Per le figure, grandi poco meno del vero, l’artista ha chiesto agli amici di posare. Il momento è quello in cui il miracolo accade: tutti gli apostoli guardano al Maestro e al mistero che su quella tavola avviene. Tutti sono partecipi, tranne Giuda. Il suo tradimento, prima che nella scarsella dei trenta denari, è nello sguardo basso che si perde nel vuoto, la testa rivolta dove non c’è nulla. Accanto a lui un Embriocosmo di luce, la cui forma a croce è profezia di quel che sta per accadere; al lato opposto le dodici stelle a simboleggiare la Madre del Signore. Il gioco di sguardi e le bellissime mani danno il ritmo alla composizione, quasi fosse uno spartito musicale.
E la spiritualità emerge potente anche nelle nature morte disseminate sulla tavola bianco vestita: i pani e l’uva, le melagrane, i fichi… una festa di colori e di forme. Tutto partecipa al mistero, i frutti della terra e il lavoro dell’uomo, tutto si fa dialogo, nel segno dell’amore, tra tempo ed eternità. La bellezza che salva può essere una tavola, oggi come duemila anni fa.

Enzo Bianchi – 2016 | Priore di Bose

L’Ultima Cena: umanissima e senza tempo
Umanissima: questa la parola che affiora sulle mie labbra come “commento sintetico” all’Ultima Cena di Ulisse Sartini. Umanissima, perché raffigura uno stare a tavola di uomini coinvolti in una dinamica che per loro è più enigma che mistero.
Siamo di fronte a una scena che i racconti evangelici narrano a ogni discepolo/a di Gesù e a chiunque li legga: una cena ultima, una cena di addio,una cena di commiato, in cui la presenza che è al centro sta per eclissarsi. Attorno al capo di Gesù c’è l’interpretazione della classica aureola, che forse appare un di più, quasi stonata rispetto a tutta la composizione di corpi che fanno corpo, si toccano, comunicano, “osano la carne”; la stessa aureola, però, è necessaria per fornire a questa cena una drammatica divina. Solo l’apostolo Giuda, uno dei dodici, il traditore che sta per andare a consegnare Gesù, non fa corpo con gli altri, ma è già rivolto verso la notte, volgendo la nuca a Gesù, come il traditore che nelle Scritture volge il suo calcagno per andarsene.
Di fronte a quest’opera un biblista come me appare interamente sedotto dalla verità del racconto iconografico in cui i volti di questi uomini, i loro sentimenti, le loro mani cosi vivide ci fanno sedere alla tavola di fronte a loro: commensali con intensità di partecipazione. Gesù, al centro, non solo attira verso di sé gli sguardi, ma fa inclinare i corpi verso di sé, in un attrazione “sensoriale”, perché tutti i sensi di questi discepoli appaiano impegnati a discernere Gesù, il suo dramma, e a viverlo. E’ significativo che con il calice del vino in mano Gesù stia dicendo: «Questo è il calice del mio sangue», che deve essere bevuto dai dodici, perché il suo stesso sangue, cioè la sua stessa vita, scorra anche nei loro corpi.
Certo anche Sartini è stato catturato dal “discepolo amato”, che sta sul seno di Gesù e con dolcezza amorosa, con gli occhi abbassati e socchiusi, poggia il capo sulle spalle di Gesù, quasi facendo un corpo solo con lui e cercando con la propria mano la sua mano. Inutile negarlo: davanti a quest’Ultima Cena si è profondamente turbati. Non credo nell’arte sacra, perché l’arte o è arte oppure non è niente, e non ha bisogno dell’aggettivo “sacro”. In quest’opera vi è l’arte che ferisce, che non permette di essere contemplata senza che le nostre viscere si turbino. E comunque io non resisterei ad averla accanto senza guardarla, facendo altro. Quest’Ultima Cena incombe, e per questo alla sua ostensione è necessario un nascondimento, per poi di nuovo toglierle i veli e contemplarla, restandone feriti.

L’incanto della figurazione supera tutte le epoche: questo rende i soggetti di Ulisse Sartini fuori da ogni caratterizzazione temporale, quindi capaci di narrare a ogni sguardo dell’umanità. E confrontarsi con un soggetto come l’Ultima Cena richiede una forte consapevolezza del proprio “saper fare” artistico.
Il confronto con le grandi rappresentazioni dei maestri precedenti è inevitabile. Forse la maestria sta proprio nel trovare una nuova strada evitandone due apparentemente semplici, ma dagli esiti non sempre felici. Da un lato, la via della stravaganza nella rappresentazione, alla ricerca di novità che non sempre approdano a una raffigurazione adatta a uno spazio liturgico, o quanto meno a sviluppare nell’osservatore un senso di “silenzio” e “contemplazione”. Dall’altro, la via della citazione che certamente concede una sicurezza perché va a riprendere concezioni di grandi maestri, quasi intoccabili, e ne fa nascere un’opera esteticamente appagante; questo però a scapito dell’attenzione verso uno stile, un’epoca a cui l’artista appartiene e alla quale è chiamato a rispondere. Sartini riesce a trovare una strada mediana, in senso forte: un “senza tempo”, perché come osservatori avvertiamo che questa rappresentazione è già altre rappresentazioni, in un certo senso appartiene già al nostro sguardo, ma “nel suo tempo”, avvertendo la necessità di riportare i soggetti al suo contemporaneo, a uomini che possiamo realmente incontrare per strada. Come mai questa rappresentazione appartiene già al nostro sguardo? La sua composizione è classica, i commensali sono tutti dallo stesso lato del tavolo, ma non riusciremo a cogliere da dove viene questo senso di appartenenza. Questa è la bravura di chi sa citare senza eccedere: la consapevolezza di venire da una tradizione imprescindibile, sapendola dosare con cura senza perdere la propria personalità contemporanea.
La personalità di Sartini emerge già dallo sfondo del quadro. È un soggetto che gli è proprio: l’oscurità in movimento dell’Embriocosmo. Cerchi astronomici si intersecano a segnare lo scorrere dei secoli. Da queste orbite di sapore futurista emergono degli elementi cosmici che il pittore mette in risalto. Nel pannello di sinistra emerge una corona di dodici stelle, chiaro riferimento alla nascita di Gesù dal grembo di una donna che verrà poi identificata con la donna vestita di sole dell’Apocalisse. Nella tela di destra nel movimento dell’Embriocosmo emerge una figura più ambivalente e proprio per questo interessante ai fini narrativi: una colomba di luce che all’occhio ricorda anche la forma di una croce. Quindi, da un lato all’altro di questa rappresentazione sono fissati i due punti di inizio e fine della vicenda umana di Gesù: la nascita come uomo e la morte in croce, ma una croce luminosa e trasfigurata dalla resurrezione, che allo spesso tempo è anche il dono dello Spirito.
Al centro di questo asse temporale segnato dal movimento cosmico c’è la figura di Gesù, nell’atto che segna la sua memoria tramandata ai discepoli: l’eucaristia. Si può infatti vedere leggermente segnato al di sopra del calice il monogramma IHS che i secoli hanno sempre di più legato al culto eucaristico. Ciò che sta accadendo è al centro non solo della storia personale di Gesù, ma di tutta la storia che si muove alle sue spalle. Gesù ha appena comunicato il tradimento da parte di uno dei dodici. Sono i gesti degli apostoli a indicarcelo. Anche questi sono gesti che si sono depositati nel nostro immaginario (“Sono forse io?”, ciascuno di loro sta chiedendo al Signore), anche se non possiamo paragonarli direttamente a rappresentazioni precedenti.
Le figure della narrazione sono poste tra due campiture di colore contrastanti. Verso l’osservatore si stende in una bianchissima tovaglia che domina quasi tutta la parte inferiore del quadro, della quale intuiamo le leggerissime pieghe che la movimentano. Verso il fondo l’oscurità siderale dell’Embriocosmo. Grazie a questa scelta tonale le figure emergono in maniera volumetrica, con il giusto spessore delle forme. Il colore ci concede anche un’ulteriore riflessione: gli elementi naturali più di quelli umani sono carichi di colore. Dalla tovaglia bianca esplodono delle piccole nature morte con i loro colori forti. Sono uova, mele, olive che a contrasto con il colore della tovaglia prendono tutto il loro spazio e il loro “peso”. Sono protagoniste tanto quanto gli apostoli, proprio perché non lasciate casualmente al decoro della tavola, ma piccole opere già definite e finite. La stessa sorte non è stata decretata per i personaggi: le tonalità che li contraddistinguono sono meno marcate, non ci sono stacchi chiaroscurali nella caratterizzazione, non c’è volontà drammatica nella scelta della luce.
È la gestualità a segnare la narrazione, a farci comprendere cosa sta accadendo. I volti dei discepoli sono impressionanti: uomini che potresti incrociare uscendo dall’atelier di Sartini dopo aver visto il quadro. Anche questa è una scelta da apprezzare: sono uomini, non singolarità specifiche, ci sembra almeno una volta di averli incrociati, sono ogni uomo. Sguardi furbi, curiosi, preoccupati: ogni apostolo ha un suo modo di rispondere all’appello del maestro. La divisione in tre gruppi di personaggi è evidentemente dettata dalla restrizione tecnica di utilizzare tre tele. I due pannelli laterali presentano la stessa composizione: tre discepoli seduti e uno in piedi. Proprio questo parallelismo fa emergere un discepolo rispetto agli altri, Giuda. Nel pannello di destra questo discepolo rompe la simmetria degli sguardi rivolti verso il maestro, non relazionandosi con gli altri. Sta uscendo dalla scena, il suo sguardo è altrove. Giuda è già rivolto verso la croce che emerge dall’Embriocosmo. Sta già portando la narrazione più avanti verso quello che da lì a poco avverrà. Il tempo dal quale questa narrazione emerge richiede di non fermarsi, di procedere cosi come fanno i cerchi cosmici alle loro spalle, che segnano il consumarsi delle ere. Tutto sta avvenendo all’interno del tempo, ma è fuori da ogni tempo.
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