ULISSE SARTINI

ANTOLOGIA CRITICA

I COLORI DEGLI ANGELI

I colori degli angeli 
…Il colore sopratutto è sviluppato con inusitata perizia, sulla base di accostamenti clamorosi e tonalità di una tale espressività da divenire valori autonomi. Forti di questo viatico, accingiamoci ad affrontare questo nuovo ciclo sartiniano tutto dedicato agli angeli. Risalta prima di tutto la varietà degli atteggiamenti e delle espressioni, tale da fare di questa schiera un campionario molto umano. Tra l’altro non sono angeli anonimi, come succede in buona parte della tradizione iconografica universale, perchè ciascuno è nitidamente definito, provvisto di una sua personalità precisa. Anche il genere nel mondo di Sartini è sempre chiaro, senza alcuna ambiguità: alcuni angeli sono con tutta evidenza femminili (in qualche caso evocano delle vergini preraffaellite, come in una bellissima raffigurazione tutta tramata sul colore bianco), altri con tutta evidenza maschili.
Benchè provvisti di ali, gli angeli di Sartini si direbbe condividano con l’umanità le passioni e gli interessi, perlomeno i sentimenti. Sono infatti sospesi tra il cielo e la terra, aspirano alla luce, all’elevazione ma non riescono a nascondere un’attrazione anche forte per la terra.
… Gli angeli di Sartini qualche volta consolano, qualche volta minacciano, qualche volta suonano melodie paradisiache, qualche volta alzano il dito come per ammonire; sono tutti angeli un po’ speciali che intervengono in qualche momento decisivo della vita.
…Tuttavia per quanto vestano abiti sontuosi, con accostamenti di colore di estrema raffinatezza e per quanto offrano profili alteri e distaccati, questi angeli creati dalla fantasia di un pittore dei nostri giorni si propongono di essere disponibili e l’atteggiamento dell’arcangelo Gabriele che porge un giglio (e intanto porta l’altra mano al cuore, a significare la sincerità della sua oblazione) diventa simbolo di una loro disponibilità alla condivisione, di un legame con gli umani. Del resto sono così umani anche loro, questi angeli: come potrebbero non essere interessati alla nostra sorte?

GLI ANGELI SONO TORNATI

…Ora con maestria ricompaiono: in un momento di confusione delle arti. Sartini ci indica una strada. Ho avuto occasione di occuparmi della sua pittura quando ha presentato la sua antologica al Museo Bagatti Valsecchi di Milano. Ora il campo è ristretto a questi personaggi dalla dolcezza infinita. La luce è presente come una via d’uscita: un bel giovane con le ali. In lui si vede anche la vita effimera dei nostri giorni, potrebbe essere il giovane della porta accanto che esce di casa e vola con la sua Kawasaki.
L’annuncio è il tema ripetuto varie volte: l’Arcangelo Gabriele reca un giglio bianco. Il manto è rosato, bianco dorato con un giglio ed il melograno nella mano destra, simbolo di prosperità. Le ali sono quasi nascoste. Gabriele concentra l’attenzione sul giglio, un fiore che sembra venire da lontano…
…L’Arcangelo Gabriele di Sartini sembra venire da lontano, il vento scompone la chioma, porta un messaggio di luce. Il giglio si è un po’ avvizzito, nei capelli si mostra una corona di pratoline con foglie d’edera.
“L’Angelo della Resurrezione” si avvolge in un manto bianco, il pannello azzurro lo interrompe e le ali, grandi, sono pronte per volare.
Il tema del volo è presente nella storia umana, dà veramente un senso di libertà, di liberazione dalle storie quotidiane. Il volo non sempre riesce, ed il corpo si raccoglie accasciato “sull’ala spezzata”.Il fondo buio seicentesco non dà molta soluzione al dramma. Esce sollievo e speranza dalla presenza dello “Angelo Musicante”. Il volto è incorniciato da convolvoli rosa pallido, come quelli che si trovano in campagna, la luce ora sorge alle spalle dell’angelo e si appoggia su una stola rosso antico, per arrivare a battere sullo strumento musicale. Tanto silenzio viene interrotto dall’ “Angelo dell’Apocalisse”. La figura muscolosa viene circondata da uno strumento a fiato, con un tessuto rosa intenso che si annoda, come piaceva agli artisti del Rinascimento.
…Questi ritratti sono molto precisi, e vissuti, si sente che Sartini vive nell’ambito delle arti come la musica, la danza, il canto. La conoscenza del corpo umano è arricchita dall’atmosfera della danza. 

Angeliche presenze nel segno della "paideia" divina

Nel diuturno agitarsi di inquietudini e di dubbi, angeli e arcangeli prendono forma dall’umano immaginario quali numi tutelari per compensare insicurezze esistenziali con l’assicurarsi divine protezioni.
Ciò per criptare intime sensualità ostentando corporeità eteree e per scenografare visioni paradisiache raffigurando performance celesti. Gli angeli di Ulisse Sartini sono sospesi tra cielo e terra, tra immanenza e trascendenza, tra sensualità e purezza. Se rievocano con la loro presenza la divina rivelazione, non tacitano le concitate passioni che si celano nell’intimo umano. Se si dichiarano nei loro attributi spirituali a tutela dell’umanità, generano compiacimento nell’avvenente involucro fisico. C’è sublimazione e seduzione, catarsi e passione, in un sottile ed intrigante gioco tra i “significanti” teologi e i “significanti” pittorici.
Questi non rimandano del tutto alla sfera religiosa, poiché permangono variegati spuri dell’amore sensibile e dei miti ancestrali. Con linguaggi ordinari e componimenti organici, il Maestro annuncia la propria epifania angelica, onde offrire la personale opzione cristiana. Con forme leggiadre e colori temperati, egli non abbandona il piacere sensibile per avvicinare siffatte creature ai desideri carnali, in vista di un’auspicabile ascesi verso la contemplazione spirituale.
Auspicio interiore che diventa invocazione pittorica. Gli angeli di Sartini oscillano tra spaesate visioni panteistiche e rigorose presenze divine. Le prime richiamano quest’epoca percorsa da spiritualità deboli che s’avventurano incerte oltre la secolarizzazione. Le seconde caratterizzano il cursus biblico, laddove gli angeli sono ministri di Dio in soccorso all’umana vicenda e a custodia dei singoli individui. Nell’animo del Maestro gli angeli sono ricordi narcisistici, sono amichevoli rievocazioni, sono geni domestici.
Tutto congiura di terra e tutto è aspirazione di cielo. Da una parte, il Maestro idealizza, in modo angelicato, contesti ed esperienze dal proprio mondo, dall’altra , iconizza, in modo spirituale, urgenze ed attese della sua fede. Il rincorrersi sinuoso di fantastiche figurazioni rivela l’oscillazione sartiniana tra terra e cielo, cosi da coniugare senza palesi conflitti l’elegante mondanità alla soffusa spiritualità.
Gli angeli di Sartini sono fuori dal tempo e dallo spazio, onde recuperare, sia il continuo coscienzale, sia la perennità spirituale. I loro “ritratti” sono “assoluti”, ovvero separati, così che la pur avvenente carnalità è in iato dal corposo rimando contingente. Immersi in luminosi e oscurati cromatismi, che esprimono il mistero divino come luce accecante, siffatti angeli sono esaltati da ali che ne rivendicano la diversa condizione creaturale. Ritornano nei fondi gli embriocosmi, cari alla fase tanto astratta quanto figurativa del Maestro. Sono un guizzo di enigmatica trascendenza avvolgenti la pensosa mestizia degli sguardi angelicati. Una vena di melanconia, infatti, percorre tali celesti presenze. Melanconia pensosa e romantica.
Pare sguardo rattristato sulla scena mondana; pare soffusa attenzione alla vicenda umana; pare fiducioso asservimento alla divina volontà. Se il loro sguardo è proiettato alla storia dell’uomo, il loro animo è rivolto alla adorazione di Dio. L’impianto disciplinato delle opere lascia presagire il divino adombramento, terribile e fascinoso. Il delicato porgersi delle figure metaforizza la condiscendenza dell’Onnipotente. Si coniugano di opera in opera femminile sinuosità e aggraziate virilità che non conducono a raffigurazione androgine, poichè l’umanità creata nel dimorfismo sessuale, continua ad essere il poema da cui trarre metafore estetiche per rappresentare presenze sovraterrestri. Gli angeli di Sartini ridondano di espressione che si fa paradosso, in quanto l’oggetto è per sé estraneo al regime dell’incarnazione. Tuttavia, vicenda biblica e storia cristiana pullulano di spiriti che assumono provvidenzialmente fattezze umane per soccorrere chi verga la storia mondana. Del resto, l’aniconico offrirsi della divina trascendenza, che trova simbolo in sfondi surreali, necessita di iconografia per sancire il rapporto interpersonale intercorrente tra intelligenze angeliche ed umane. Ed è proprio l’eccesso di figurazione a stupire e piacere, per quella semplicità postconcettuale e quella profondità metarealista, che non sembra illustrazione di superficie, bensì esemplare di maniera. In questo modo, cura delle velature, leggiadria degli incarnati, morbidezza delle stoffe, si fanno ossessione di perfezione per estetici incantamenti. Il fruitore è perciò invitato a trasvolare dal piacere dei sensi al diletto dello spirito, cosi da inabbisarsi nel divino. 
Tanta seduzione pittorica non può non fare riflettere su angeli ed arcangeli, onde, traslare da ingenue credenze a credibili rivelazioni. L’odierna cultura desidera spiriti di giustizia e di bontà, ma risolve tali esigenze in miti e leggende. La cultura cristiana celebra, invece, l’incontro con chi il Signore ha posto a nostra custodia e guida dell’umano pellegrinaggio. 

Il ritratto come esaltazione dell'umanità.

Il ritratto come esaltazione dell’umanità.
Se considerata nella sua parabola, coll’inevitabile approdo, la vita dell’uomo ci appare per forza triste: 
segnata dalla sofferenza, dalla coscienza dolorosa dell’impossibilità di superare i limiti terreni, e poi di fatto sigillata dalla morte. 
Ma, con una non minore intensità, l’esistenza dell’uomo si pone sotto un segno ben diverso e diviene sinonimo di affermazione di sé, di realizzazione e di conquista, o almeno di adesione alla vita dell’intero universo.
Il fatto è che l’uomo, come da sempre hanno notato i filosofi e i poeti, ha una natura duplice, condividendo insieme l’animalità delle nature inferiori e la grandezza senza limiti degli esseri che ha posto al di sopra di sé, quelli cui, ha attribuito compiti immani, come sono la creazione del mondo e il giudizio finale.
Le due nature, come si sa, sono in ognuno di noi ine¬stricabilmente legate, a volte addirittura confuse; e il difficile sta appunto nel distinguere, nel riconoscere davvero, in noi e negli altri, l’una e l’altra parte.
Un pittore come Ulisse Sartini conosce bene, naturalmente, questa duplicità della natura umana, e non ignora i segni che il tempo incide sui nostri volti e dentro i nostri corpi, ma per qualche ragione che cercheremo di capire, di spiegare, dipinge i personaggi della sua affollatissima galleria come se fossero stati misteriosamente risparmiati, immuni dalla consunzione della carne.
E’ vero che spesso i modelli di Sartini sono giovani o giovanissimi, bambini e ragazze e giovani uomini che per forza di cose mostrano il loro volto più seducente, ma non si tratta solo di una questione di età.
Infatti anche nei casi in cui gli uomini e le donne’ dei ritratti hanno superato una certa soglia temporale, li vediamo comunque privi di rassegnazione, senza tracce di decadenza irrimediabile, ben lontani dal far capire che si stanno arrendendo al destino.
Si potrebbe obiettare che forse Sartini dipinge in questo modo per volere dei committenti, i quali gli imporrebbero, per così dire, un certo tipo di figurazione; ipotesi da scartare, solo che si ponga mente alla coerenza con cui il pittore realizza i suoi ritratti, certo portati avanti secondo principi suoi, indipendenti dalla volontà dei modelli.
Né si tratta di piaggeria nei confronti dei personaggi che si pongono di fronte a lui, al suo occhio prensile, rapido nell’afferrare una fisionomia e un carattere.
Semplicemente Sartini ha fatto una scelta. 
Avrebbe potuto scegliere di esprimere la degradazione e la miseria e la vanità infinita dell’uomo; ha scelto di metterne in luce la grandezza, le potenzialità innumerevoli, la scintilla divina. 
Questo non significa che egli si illuda sul conto dell’uomo; si rende ben conto delle sue meschinità, e dei tradimenti e dei disordini, ma preferisce andare alla ricerca di quanto c’è di positivo in ciascuno di noi: in sintonia, si direbbe, con l’insegnamento cristiano che riconosce in ognuno la possibilità del riscatto e della salvezza.
Non è un caso se gli uomini e le donne dei suoi ritratti si pongono in una felice relazione con il paesaggio, con la natura inquadrata da una finestra o un tendaggio o una porta. 
Colori foschi caratterizzano invero tali sfondi, e cieli oscurati da molte nuvole, con una scelta che si rivela soprattutto di natura pittorica, perché la luce possa scivolare dolcemente, contrastata da rade ombre, sui primi piani del volto e del resto del corpo, e sugli abiti (qualche volta lo sfondo è anche animato da qualche personaggio, tratto dalla storia o dal mito, da qualche figuretta araldica che sembra allontanare ancora di più la scena in un passato favoloso).
Un’attenzione tutta speciale è riservata, come è ovvio, al volto, che si rivela non solo attraverso lo sguardo ma in vari altri aspetti e negli stessi particolari delle labbra, nella forma del naso e,dei capelli.
Da un certo tempo, al posto del personaggio idealizzato, talora di suggestione secentesca, di cui si diceva, troviamo sullo sfondo dei ritratti quelle forme circolari, intersecantesi l’una con l’altra, percorse da bagliori e da iridescenze, cui Sartini ha voluto dare il nome di “embriocosmo”.
Il suo scopo è quello di coinvolgere lo spazio nella scena principale, e viceversa di dilatare il significato, poniamo, di un ritratto, riecheggiandone le forme tutt’attorno, via via sempre più in là.
Fin verso il cosmo, appunto, verso l’universo, di cui ognuno di noi è solo una stilla, una particola in perenne trasformazione, talora illusa di una stabilità che non esiste. 
Con l’embriocosmo, è come se Sartini reagisse alla fissità del ritratto, contrapponendogli il movimento inesauribile e cromaticamente variegato delle sue forme astratte, ricche di potenzialità, gravide di tutto quel che il mondo offre e che si manifesta con una sorta di germinazione magmatica.
E tale è l’attrazione per il tema embriocosmo che talora l’artista lo svincola dalla dipendenza alla figura e gli conferisce una, piena autonomia, una vita libera e tutta propria.
Che sia questione di ritratti (o di autoritratti), o degli embriocosmo in sé valevoli, non vale neanche la pena sottolineare, tanto è evidente, la sapienza con cui il pittore li costruisce: con una perfezione che trova ben pochi uguali, tale da rendere questi dipinti, prima di tutto, straordinari brani di pittura, che hanno un senso per loro stessi, indipendentemente da quel che eventualmente raffigurano.
Tutte le virtù di un pittore vero, con la ricerca appassionata e quotidiana, e quasi magica, della “ricetta” migliore per i colori e delle soluzioni migliori per la composizione e le singole forme, sono qui richiamate e messe in pratica, esercizio paziente e mai interrotto (del resto, l’eccellenza conseguita è dimostrata anche dalla qualità dei disegni, che non sono soltanto studi preparatori).
Tale pratica presiede anche alle prove nel campo dell’arte sacra, in cui l’umanità, che Sartini tanto considera ed esalta, diviene la ragione capace di sottolineare la perenne attualità di un messaggio.
Per questo talora le figure della storia sacra possono avere le fattezze di lui, del pittore; e per questo i suoi angeli sono creature terrene solo toccate dalla grazia, non troppo lontane da certe donne amorosamente ritratte.
Nella visione di Sartini, infatti, la storia di Dio e quella degli uomini non sono due realtà separate o, peggio, contrapposte; esse si richiamano di continuo, sulla base di una religiosità profondamente sentita, continuamente Perché ci troviamo di fronte a un pittore sincero, che mette a frutto ogni giorno il principio del “nulla dies sine linea”; animato da una visione innocente e istintiva del mondo e della propria pittura.
Certe problematiche di carattere teorico relative ai linguaggi artistici e alle loro funzioni lo lasciano perfettamente indifferente: 
per lui la pittura rimane un bisogno interiore inesplicabile e assoluto, e l’approdo definitivo a un mondo di bellezza ideale, umana eppure stranamente non toccata dalle traversie del mondo, intatta e perfetta sempre. 

Memorando episodi legati alla vita di Padre Pio, mi sovvengono alcune sue confidenze allorquando con cipiglio si sentiva costretto a bistrattare qualche giovane penitente: 
“Quanto mi costa usare tale atteggiamento, ma è per il loro bene!”.
Il ritratto del beato, proposto da Ulisse Sartini, è al contrario pacato e quieto. 
Non vediamo più un Padre Pio “burbero benefico”, bensì un santo “divinamente innamorato”. 
Quanto proposto dal pittore, che vanta consumata esperienza ritrattistica, è un momento di levitazione mistica. 
È il Padre Pio che consegna ai piedi della croce i peccati uditi e perdonati; è il Padre Pio che supplica misericordia per i miseri; è il Padre Pio che cessa di domandare lumi al Signore per lasciarsi da lui interrogare.
Padre Pio dimora ieratico e mistico nell’embriocosmo crepuscolare, perché è in devota contemplazione del Cristo in croce.
Il suo animo è placato dalla preghiera, frutto di teologali virtù. 
Il suo sguardo è concentrato su quanto il Signore gli insegna e, forse, gli rivela. 
L’opera pittorica ferma un attimo fuggente di raccoglimento del novello beato, che si fa segno della sua ricchezza di santità.
Padre Pio è fissato nel momento della lectio divina. 
Il Cristo è sempre stato il suo divin maestro. 
Padre Pio lo ha studiato, predicato, meditato, pregato, contemplato e amato, fino a compartecipare ai suoi patimenti, che il pittore accenna e lascia nell’enigma avvolgendo i polsi del beato nei guanti. 
I1 rosario che scorre a segnare i giorni della vita di Padre Pio è segno iconico della sua contemplazione di Cristo che si fa, come in Maria, gaudio, dolore, gloria.
Padre Pio è ritrattato su una terra che appena sfiora, ma è avvolto di paradiso, anche se il fulgore della croce non toglie peso alla sofferenza, alla solitudine, al martirio della ferialità. 
Non per nulla il triangolo luminoso dato dal Cristo in croce, dalla Parola di Dio e dal volto del beato non può del tutto illuminare il resto della scena la cui luce è solo bagliore di cielo e non pienezza di visione. 
Lo stesso espandersi a cerchi concentrici della scenografia pittorica è stigmatizzato da giuochi di linee che spezzano il turbine pentecostale, poiché la fuggevole scena di questo mondo è turbata dall’insidia del peccato. 
Al centro campeggia il cingolo francescano che con i suoi tre nodi richiama i consigli evangelici, quale chiave di ingresso per il regno dei cieli attraverso la “porta stretta”.
Ulisse Sartini ha realizzato un Padre Pio elegantemente «francescano», in quanto lo ha ammantato di “perfetta letizia”, quale beatificante epilogo di ogni umano patimento. 
Lo ha appena messo in posa, non indugiando però nel narcisismo del personale raccoglimento. 
Lo ha dipinto enfaticamente assorto non per i fruitori del quadro, bensi per Dio che è luce in cui si filigrana il crocifisso. 
Lo ha offerto nel suo disegno ben temperato e studiatamente oleografato alla pietà popolare che vede in Padre Pio un taumaturgo e deve imparare a scrutare in lui un modello egregio di santità. 
Lo stile ricercato ed elegante del componimento pittorico rende giustizia a Padre Pio, poiché ne evidenzia, con dolcezza di immagine, la bellezza interiore. 
Lo schivo protagonista, asceso agli onori degli altari, è dunque purificato nel suo carattere ed eminenziato nella sua connotazione mistica.
Ulisse Sartini, con i suoi stilemi iperrealisti, in cui si coniuga il sistema dell’embriocosmo, vuole parlare di Padre Pio ai fedeli semplici del buon popolo di Dio, che dinanzi a tale figurazione devono poter pregare, trovare consolazione spirituale, ricevere forza di conversione. 
Il pittore di arte cultuale è profeta, poiché deve rivelare quanto Dio gli comunica nei “segni dei tempi”. 
Il profeta però non avverte compiutamente il peso e il significato di quanto va proferendo. 
Saranno coloro che sosteranno in devoto raccoglimento davanti, all°icona di Padre Pio a comprendere, di volta in volta, quanto il Signore vuole loro confidare, attraverso l’intercessione di tanto venerato personaggio. 
Così l’embriocosmo di Ulissi Sartini si espande nel più grande e solenne giuoco di spazi circolari di Renzo Piano, che costituisce 
il “sacro recinto” in cui confluiscono i pellegrini per riconciliarsi con Dio e celebrare i divini misteri. 

Ma non è per meravigliare i riguardanti che Sartini sostituisce alla globalità della veduta l’empirismo lenticolare di brani isolati.
Spesso, davanti alle sue particolareggiatissime descrizioni, si ha la sensazione che egli tenda a presentare le cose non come si vedono, ma come “sono”.
In Beatrice Carraro del 1995 e in Alessandro Santucci del 1999, la perfetta crisi di ogni oggettività rappresentativa o conoscitiva (quella, per intenderci) che Robert Klein chiama “l’agonia del referente” ha un rovescio positivo, perché coincide con la genesi della creatività del pittore piacentino.
Proprio là dove si perde in un’analisi che sembra senza oggetto, l’immaginazione crea l’inesistente, disegna invisibili trame ed eventi poetici, simili a due bellissimi libri della fine del ventesimo secolo, “La vie mode d’emploi” di George Perec e “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. 

Sartini di nome si chiama Ulisse. 
Ecco, mai un nome fu più appropriato. 
Ulisse significa avventura e mistero, invenzione e rigore. 
Così sono appunto i quadri ch’egli dipinge: affascinanti e arcani, ricchi di suggestioni e di messaggi segreti. 
Non per nulla le sue opere appaiono sullo sfondo di quello che lui chiama Embriocosmo, un mondo in cui, soprattutto ultimamente, immerge gli spazi. 
I suoi autoritratti e i suoi ritratti, ma anche le opere di pura invenzione, quali l’Annunciazione o come Maria nell’immagine della Deposizione, sono tutte forme della sua creatività e della sua immaginazione. 
Ma non si pensi a un arbitrio suscitato dalla sua brillante invenzione intellettuale. 
Egli ama la verità dei suoi soggetti e ad essa coordina ogni sensazione. 
Di frequente ricorre anche alla propria immagine per documentare la sue emozioni, come nel San Sebastiano legato alla colonna o come nel Cristo dopo la crocefissione. 
Ogni sua immagine, almeno dal suo Bacco del `97 alla sua Maddalena come Salomè del `98, possiede una particolare invenzione, un’idea precisa, un paesaggio sereno o drammatico che si dipana sullo sfondo.
Ma questo riguarda del resto ogni altra sua opera. 
Alberi e manichini, con dovizia di particolari e lusso di drappi, angeli di pace, angeli musicanti e angeli annunziatori, aquile e colombi: sono queste le metafore di cui Sartini si serve per comporre le proprie allusioni poetiche. 
Ogni sua immagine è un simbolo e un’allegoria. 
Tra intuizioni e riferimenti specifici, il suo universo è fitto di un profondo anelito verso un’impossibile felicità, a cui egli tuttavia crede. 
In ogni aspetto delle sue rappresentazioni c’è l’incanto, il garbo e l’eleganza della bellezza: 
una sorta di accordo tra le parti, un’armonia che risolve ogni problema. 
Indubbiamente Sartini è un visionario. 
Egli avverte l’enigma dell’arcano e cerca a modo suo d’interpretarlo. 
Non forza però mai la mano a trovare una facile soluzione. 
L’ “operazione” ch’egli tenta è quella che propone ogni volta la scelta non agevole, ma più complessa e a prima vista quella meno persuasiva. 
Le sue intuizioni e le sue rivelazioni appartengono al racconto incantato che la memoria gli suggerisce. 
Il suo colore è profondo, ricco di suggestioni e di magie. 
In lui la luce e l’ombra non hanno mai una funzione decorativa, bensì una funzione sempre espressiva, così la sua “materia” ha sempre un’intensità, un “tono” e un carattere, che appartiene prettamente al suo linguaggio.
Quella che Sartini racconta è parte dei suoi sentimenti, dove malinconia e dolcezza, soavità e grazia, lottano sempre contro l’asprezza della nostra esistenza. 
E’ sempre la coscienza che gli consiglia la verità. 
Egli cioè rifiuta il gioco e l’intreccio frivolo dei sentimenti. 
Crede nella sostanza del vero, anche se nelle sue opere si affida alla finzione per esprimere il giusto senso della realtà. 
Nel suo dipingere pensa che la nostra vita intera sia una trasposizione della nostra memoria in immagine. 
E’ dunque così che si comporta: le sue ragioni si manifestano in una serie di motivi che gli creano intorno un consenso sicuro. 
Quale è dunque la sua poetica? 
Indubbiamente Sartini crede all’armonia del Cosmo, alla sua perfezione, che solo il dolore e le avversità possono turbare. 
Così, tra gioia e dolore, la nostra esistenza, con alterne fortune, passa indomita. 
Egli ha fede nel destino, nella saggezza del Fato, ma in ogni momento può accadere che il caso sia contrario ai nostri eventi. 
Allora può accadere che un avvenimento imprevisto possa suscitare una situazione contraria. 
E’ in queste occasioni che abbiamo bisogno di una particolare fortuna. 
Sartini ha un desiderio: quello di rispettare le sembianze di una fisionomia; così nei suoi ritratti e nella sua stessa immagine dipinta. 
Ma ancora di più ha bisogno di rispettare l’autenticità radicale, cioè alla radice, di un volto, di un aspetto, che vuole in ogni caso intenso e assoluto. 
Egli cerca, col giusto assunto del dato credibile, l’elemento che possa convincere e dia una garanzia. 
E ad esso assicura le sue immagini terrene e ultraterrene. 
In questo modo egli plasma e compone il suo modo di sentire e di esprimere le sue inquietudini e le sue preoccupazioni. 
La situazione in cui vive gli garantisce una immunità sicura, che sfrutta a suo vantaggio. 
Dietro di lui non ha garanzie, tranne il suo impegno di artista. 
Ed è a questa dote ch’egli si assicura e assicura la sua esistenza. 
In sé possiede soltanto la fortuna di essere pittore. 
Ed è su questa dote esclusiva ch’egli gioca ogni sua carta. 
Il cielo e la terra gli sono propizi. 
E’ così che, dai corpi celesti alle forme terrene, egli produce le sue visioni e i suoi fantasmi. 
La fortuna è ch’egli sia un pittore autentico e che amore, simpatia e bellezza sono dalla sua parte: è appunto su queste doti ch’egli gioca e vince. 

Sono certo che quando Sartini dipinge un ritratto, sa di essere figlio della cultura umanistica; sono altrettanto certo che è consapevole anche di essere un’eccezione, che è informato sul fatto che la cultura tecnologíca ha preso da tempo il sopravvento su quella umanistica e che per andare controcorrente ci vuole un coraggio assurdo, quasi una sorta di incoscienza.
Non parliamo poi del coraggio che ci vuole ad affrontare un genere come il ritratto “aulico”, in un’epoca che di aulico non ha più niente; trasformare le fattezze non sempre nobili di un’umanità ambiziosa e ingenua nella sua vanità autocelebrativa, probabilmente incosciente anch’essa, in quella di una stirpe eletta dal cielo è una creazione nella creazione che ha del prodigioso.
E benché Sartini faccia miracoli, non sempre gli può riuscire di riscattare totalmente un volto scialbo, un’espressione imbalsamata, un corpo insignificante.
Ma a guardare bene i precisissimi ritratti di Sartini, ci accorgiamo che quanto più sono accurati, tanto più aumenta la distanza che sentiamo nei confronti delle persone raffigurate.
C’è un senso di straniamento che ce le fa sembrare lontane, verosimili ma diverse, impalpabili anche nella loro assoluta concretezza.
Non c’è niente di strano o di nuovo; Sartini ha imparato che il realismo intenzionalmente accentuato, levigato da una luce intensissima e soprannaturale, perfino lezioso nella tornitura del modellato, è la forma più sottile ed inquietante dell’astrattismo. 
Esasperazione del fisico, ci ribadisce Sartini, conduce al metafisìco, all’essenza concettuale della realtà.
Più l’occhio percepisce come credibile la riproduzione del reale, più questa sembra non assimilabile al vissuto ordinario. 
Usare il realismo per dimostrarne l’impossibilità è un’altra espressione d’incoscienza, un’altra follia suicida. 
Davanti a tante felici “incoscienze”, una sola, grande, inamovibile certezza: la strepitosa capacità tecnica.
E quando il soggetto non si è vestito a festa per la posa, quando non è impettito e mantiene la freschezza degli splendidi Bambini Khevenhiiller, Sartini dimostra tutta la sua bravura ed esibisce orgogliosamente la propria parentela ideale non con Annigoni, inevitabile riferimento per il suo talento ritrattistico, ma con Edita Broglio, con Achille Funi, con “Novecento”, con il meglio del realismo italiano di questo secolo. 

Qui Sartini sembra voler rappresentare quello che si diceva una volta “il movimento delle sfere”. 
In accezione metafisica. 
Ma ancora in una fase di elaborazione, per la quale ciò che viene esposto è soprattutto, nella densità di uno spazio magmatico, l’energia generativa. 
Difficile dire se queste energie livide, di fuoco freddo, di bagliori lampeggianti, debbano essere lette come lontana e necessaria origine dei ritratti, o non debbano piuttosto essere considerate, come credo, un parallelo dello stesso lavoro di indagine della pittura di Sartini nel corpo di una realtà (o verità) che è sempre sulla soglia di una propria definizione. 
Questi frammenti di universo in formazione sono a loro volta, probabilmente, “ritratti” in formazione e stanno ai ritratti veri e propri come una sorta di contrappunto. 
Tutta l’opera di Sartini, da leggersi contestualmente, è ragionevole allora che abbia da dirci, fra altre cose, questo intreccio di reale/sovrareale visionario, in un gioco di riflessi e riflessioni dal quale traspare il senso del molteplice delle apparenze come unica unità possibile. 

Come ritrattista di personaggi famosi, dalla Callas a Del Monaco, fino a Bianca di Savoia Aosta, egli ha un suo posto di rilievo nel panorama internazionale legato alla rinascita di questo genere d’arte, possedendo la capacità di infondere luce, grazia e poesia ai personaggi e di trasmettere ai volti con particolare sensibilità un indubbio fascino.
Ma accanto ai ritratti troviamo l’altro modo creativo di Sartini, che ha pure ricevuto lusinghieri riconoscimenti, quello degli Embriocosmo dove il talento pittorico vola con la fantasia. 
Gli Embriocosmo rappresentano la risposta emotiva ed estetica dell’artista agli enigmi che ci sovrastano, un viaggio nei misteri dell’universo, dove simbolici corpi celesti attraversano gli spazi siderali: una prospettiva visionaria che crea un universo magico come rileva Pedro Fiori. 

Evocatore di un “dandysmo”, da esteta raffinato: 
quel modo di essere elegantemente diversi per mezzo di raffinati particolari in un romantico senso “byroniano”. 
Pittore di forte simbolismo nel “Mistero degli embriocosmi” Ulisse Sartini da Milano porta a Trieste una rassegna di valore artistico con qualche cosa di più, il “Ritratto” e la “Fuga verso mondi lontani” con i suo corpi celesti. 
Ci porta il simbolismo romantico dei poeti come Baudelaire, Mallarmè, Rimbaud, del pittore Redon, il cui precetto era “mettere sempre accanto a una certezza un’incertezza”.
Su sfondi azzurro acqua trasparenti come il simbolo della purezza, contro aranci fiammeggianti, contro blu scuri si formano rotondi, creati dai colori i nuclei cosmici di Sartini: come pianeti solcati da crateri fuggono verso il mistero di un mondo cosmico, immagini rotonde in una ciclicità che rappresenta il tempo. 
Ricerca dei problemi dell’universo in continuo rivenire che ci riportiamo all’antico discorso del filosofo Parmanide. 
Per avvicinarmi ai problemi dell’universo – dice l’artista, fermo accanto alla grande tela che in uno sfondo “rinascimentale” d’arancio dorato fa esplodere i suoi nuclei vibranti. 
“Amo Rembrandt – spiega Sartini – e ho studiato le tecniche degli antichi maestri del rinascimento. 
Prima preparo la tela con il bianco e il nero, poi attraverso le velature di colore ottengo le trasparenze”. 
Nascono da queste tecniche, su sfondi dolci di colline sfumate nei verdi chiari e azzurri rotti dai bruni delle rovine di castelli, in un’aria del tutto rinascimentale splendidi ritratti dove gli spazi sono tagliati dalla luce in diagonale, e il personaggio appare vivo nelle sue vesti di seta palpabili. 
Il personaggio diventa pretesto per il paesaggio. 
Vive la sua modernità, è questa la caratteristica dell’arte di Sartini, in un’ambientazione rinascimentale. 
I personaggi ritratti da Sartini vivono in uno spazio intenso che ne esalta i lineamenti, l’atteggiamento, i volti hanno una bellezza esteriore che rispecchia le emozioni dell’anima. 
Il culto della bellezza è profondamente calcolato, immesso nelle tele di Ulisse Sartini, esteta romantico. 
Due visioni in questa personale: i ritratti, per una ricerca espressiva, e il mondo cosmico per la ricerca del mistero in un vicino futuro. 

Sartini, lo nota immediatamente, è uno di quegli artisti (non molti) per i quali il dipingere è gioia, entusiasmo, amore per la bellezza, vita insomma. 
Quel suo sdoppiarsi disinvolto tra un ritrattismo di pura derivazione classica, fiamminga e rinascimentale (echi fortissimi di Stultus e Annigoni; ma c’è anche un ben “nostro” Timmel che ci torna alla mente) e un “embriocosmo” (come lo definisce) dove trionfa fantascienza, il futuribile, la sperimentazione materica, può sconcertare. 
La diffidenza per questa solo apparente frattura o dicotomia si muta presto in ammirazione. 
Con la sua tecnica spettacolare e curatissima , Sartini potrebbe limitarsi al ritratto, certo più “facile” anche sul piano commerciale.
Comunque il suo ritrattismo è tanto “derivato” quanto vivacemente personale: le donne bellissime, gli uomini affascinanti, i bambini adorabilmente goffi o impacciati che compongono “conversation pieces” stile Settecento inglese, hanno tutti una “griffe” particolare. 
Non tanto nella sontuosità dei colori, nell’espressività dei volti, negli sfondi che già Annigoni aveva mutuato dai classici e da Leonardo in particolare, ma nell’atteggiamento, rivelatore di personalità ben distinte; e le mani, perfino la scelta dei tessuti e gioielli, contano in questa ricerca psicologica forse più delle fisionomie. 
Dopo questo mondo del presente espresso con i toni classici dei grandi maestri del passato, ecco il futuro dell'”embriocosmo” Nascita di astri, di galassie, formazioni molecolari, esplosioni atomiche, rivisitazioni areopittoriche di un certo futurismo, appunto. 
E molti critici ai quali mi associo, vedono in questo il più autentico mondo pittorico di Sartini. 
Che nell'”autoritratto con embriocosmo”, li coniuga e compenetra, non senza quel briciolo di ironica civetteria che si addice ai talenti autentici e perciò atemporali.

Molto spesso la critica d’arte diviene una “camicia di nesso” per gli artisti ed è il caso di Sartini, troppo frequentemente accostato a Sciltian o come l’erede di Annigoni” La pittura di Sartini al di là di questi richiami rivendica sollecitazioni più vicine al fascino della grande tradizione pittorica rinascimentale. 
Un “fare pittura” di solida costruzione che si avvicina elle complesse tecniche dell'”antico”. 
Non mancano i richiami infatti sia nell’impaginazione, sia spesso nel voluto “divertissement”, alla grande storia del ritratto. 
La “citazione” tuttavia ricca di simboliche suggestioni guarda all’interiorità del ritratto, non senza un rimando intellettualistico come negli elementi naturali, fiori frutta spesso allusivi e partecipi dell’effigiato.
Lo stesso paesaggio spesso presente segna un fondale di “richiamo” alle figure secondo un rituale d’impianto “quattrocentista” e anch’esso è preso in prestito dalla tradizione.
La tradizione tuttavia non spegne la sua mai sopita ricerca della poetica dell'”Embriocosmo” che cita frequentemente e sposa nelle dimensioni “atemporali” del suo ritratto. 

E’ un ritrattista. 
Non certo ritrattista comune, dipendentemente dalle sue qualità disegnative e coloristiche. 
Va detto, per le seconde, che è un aristocratico colorista: aristocratico anche per i nobili e spiccanti soggetti, nobilitati dalle gamme tonali che sono ben coniugate nelle immagini e per il disegno che è deposto nelle mani: il punto più difficile della resa delle parti anatomiche, nella ritrattistica.
La maniera pittorica di Sartini (splendida maniera, quella di un vero maestro, forse l’unico che con tal quale capacità operi in Italia) dipende dal realismo molto fine, di somiglianza e carattere, in un genere di pittura che le somiglianze ed ha le mani – il punto meno facile nella pittura di rispecchio sartiniano – che si esprimono addirittura in un linguaggio variato di bellezza e finezza. 
In verità è impossibile trovare un pittore così spiccatamente dotato. 
Anche ampie tele sono esposte, con una verità figurativa meritevole di plauso; anche di formato medio ne ha esposto l’artista e dipinti detto ognuno <<Embriocosmo>> vere forme astratte, ma di argomento bello, parascientifico. 
Una mostra, questa che si consiglia d’esser visitata. 

E difatto accanto a questo lavoro che si traduce nella sequenza, sociologicamente connotata, di una galleria di ritratti (affiancata da qualche autoritratto), Sartini sviluppa una tematica imperniata sulla figura dell'”embriocosmo”, secondo il suo vocabolario: immagini derivate da un simbolismo geometrico e atmosferico che enuclea all’organicità nell’astrazione e allude, con la meticolosità di uno scienziato della fantasia, a un momento genetico e originario della vitalità. 

Accanto alla magia degli «Autoritratti» e «Ritratti» (recente, quello stupendo di Bianca di Savoia) c’è l’altro mondo creativo di Sartini: il «mondo degli embriocosmo, immagini di innegabile fascino, dove il talento pittorico vola con la fantasia. 
Da anni e parallelamente, con la stessa originalità dei Ritratti, la sua ricerca espressiva si è inoltrata nel mistero dell’universo. 
Sono valori che vanno sottolineati: nell’area della giovane pittura italiana gli embriocosimo costituiscono senza dubbio uno dei linguaggi più emblematici, più significativi. 
II successo che ha accompagnato queste visioni conferma, del resto, che il pubblico e il collezionismo, attraverso la loro sensibilità, hanno continuato a vivere la misteriosa poesia cosmica che Sartini ha saputo trasmettere ai suoi quadri. 
Sappiamo che l’avventura cosmospaziale è in piena espansione. 
Artista originale, figlio del proprio tempo, Sartini ha fatto suo il tema di tali «magici avvenimenti» che hanno cambiato radicalmente la storia della nostra civiltà: gli «embriocosmo» rappresentano, in ultima analisi, la sua risposta intuitiva la sua «verità emotiva ed estetica» ai macroenigmi che ci sconvolgono e ci sovrastano. 
Penetriamo ora in queste visioni per iniziare un «viaggio nel mistero dell’universo». 
Simbolici corpi celesti attraversano gli spazi siderali. 
Davanti a noi si apre ad un tratto una infinita dimensione. 
Ci sembra di essere immersi in un sogno senza fine. 
La realtà diventa una «microfavola» che noi viviamo con la nostra tenerezza e la nostra infanzia.
È la prospettiva visionaria di Sartini che fra intuizioni e rivelazioni della memoria, crea il racconto di un «universo magico». 
Tutto è vita nel movimento di questi metaforici corpi celesti. 
Si sente in essi pulsare il «seme cosmico». 
Tra palpitanti bagliori, sfumature luminosità e spazi cupi, continuiamo a inoltrarci nelle ignote dimensioni. 
Le forme vengono sintetizzate, suggerite per evitare l’«illustrazione descrittiva». 
Un poetico colore (olio) veste di vibrazioni le immagini. 
A quadri di chiare, morbide velature si alternano altri nei quali vibra da drammaticità di neri profondi. 
Vediamo che la maestria di Sartini rivela anche negli «embriocosmo» tutto quel mondo di sentimenti che lui si porta dentro. 
Il mistero di Sartini, il mistero dei veri artisti. 

Ulisse Sartini (nato nel 11943) è una vera rivelazione nell’arte italiana di questi ultimi anni. 
Uno degli artisti più importanti fra quelli della sua generazione in quest’odierno ritorno (e fiorimento) ai valori della pittura-pittura. 
Posso affermare che siamo davanti al “caso Sartini”. 
Ho seguito la sua ricerca espressiva, fin dall’inizio con attenzione. 
Non mi sbagliavo. 
Il tempo mi ha dato ragione. 
Eravamo in presenza di un autentico valore, di un giovane maestro con un suo posto all’interno dell’attuale rinascita della ritrattistica internazionale. 
Intuitivo, personalità emotiva e umana fino al dolore, talento pittorico, Sartini ha studiato, approfondito, scavato nella mirabile lezione dei grandi maestri del Rinascimento, assimilandone la notevole tecnica e il mistero della loro pittura.
I suoi primi autoritratti dall’adolescenza (quello in cui appare vestito d’arlecchino, del 1959, e quello “caravaggesco”, del 1963, sorprendente per la sua maturità (aveva soltanto 20 anni) erano già una dimensione epifanica della sua sensibilità e del suo métier, un’anticipazione di ciò che sarebbe stato il suo stile e la sua originalità. 
Nei servizi di alcuni noti settimanali Sartini veniva messo accanto ad Annigoni e a Sciltian. 
Ma bisogna chiarire che l’immagine sartiniana si stacca dal “leonardismo” annigoniano (con o senza le “affinità elettive”, direbbe Goethe, con Leonardo Annigoni rimane un indiscutibile maestro del ritratto nel panorama) e dalla “glacialità” di Sciltian.
L’identità-fisinomia della visione di Sartini è una simbiosi nutrita dalla struttura del disegno e dalla magia del colore. 
Le nervature della linea si fondono infatti in lui con la morbidezza cromatica (l’olio) fino a rivelarci le vibrazioni e la bellezza di una realtà poetica. 
Ne nasce una immagine che trasforma in musica le forme e le espande in luminosi voli nello spazio.
Un ritratto è sempre, per un artista, un atto d’amore, di esplorazione emotiva, un calarsi nell’intimo del personaggio fino a svelare, si potrebbe dire, l’anima stessa del soggetto. 
E’ appunto uno “specchio rivelante” del personaggio sul quale si riflette la sua personalità esistenziale con tutte quelle forze, consce e inconsce, che ogni essere umano si porta dentro: l’universo: l’universo dei sentimenti senza il quale la vita non ha nessun senso.
Come un poeta (un voyant per Rimbaud) che crea le sue visioni Sartini crea le sue immagini. 
Lo possiamo vedere in questa serie di ritratti e autoritratti(1979-1986).
Quando guardiamo i suoi dipinti assistiamo ad un tratto al mistero di una rivelazione: i personaggi prendono vita, palpitano con una propria dimensione e con una propria poesia che esaltano le sembianze e l’espressione. 
Come se la mano di questo sensibilissimo artista fosse guida-corpo si sublima nella coralità espressiva del volto, nel senso misterioso dello sguardo, nell’insonsabile enigma degli occhi, delle labbra, delle mani. 
Tutto l’alfabeto dei sentimenti, insomma, che racchiude il personaggio (dalla donna all’uomo, ai bambini, alla madre con il figlio) viene sviscerato e rivelato da Sartini con una simbolica suggestione fino a identificarlo con il soggetto stesso.
Gli abiti, le cose, gli interni e il personaggio (l’orfico fascino sartiniano, che si sprigiona da essi, merita un discorso a parte) avvolgendo l’indentità dei suoi essere come una favola del cuore. 
Sartini situa i suoi ritratti e autoritratti in un ambito in bilico fra realtà e sogno, fra qualcosa che vediamo e qualcosa che immaginiamo. 
E’ come una improvvisa intuizione che penetra nella nostra sensibilità attraverso le sensazioni e non possiamo definire ma sentiamo palpitare nel profondo (negli autoritratti, dove Sartini personalizza la sua emotività, il suo volto si veste di nostalgia, sogni, mistero). 
E’ appunto questo primigenio mondo della poesia ciò che illumina e i suoi personaggi. 
Nel fondo Sartini è un poeta del ritratto e le sue immagini sono il racconto di quell’ineluttabile rituale dei sentimenti che ognuno di noi vive per dare un senso all’esistenza. 

Sunt nomina rebus! Lo ricordate? con questo aforisma gli antichi concedevano l’essere reale alle cose, costituendole nella loro essenzialità e nella loro forma.
Per questo aspetto il grande Omero chiamò Ulisse l’uomo 
“… di multiforme ingegno”. 
Per altro verso io direi lo stesso di un nuovo Ulisse, di Ulisse Sartini, l’artista milanese che dal colore trae con estrema passione la sua ragion di vivere e di operare.
Spazi infatti con la ricchezza pregnante del suo spirito in visioni quasi metafisiche, che calano poi in espressioni pittoriche raffinate e tenacemente riflessive, alla ricerca del processo genetico della vita: problema che induce poi il Sartini a larghissimi tratti meditativi. 
E, inoltre, gratificato da venature sempre sollecitanti di quel mondo senza termini, nè spaziali nè temporali, che è quello della classicità, rivive il pieno antropologico, la cui bellezza sofferta o già affiorata filtra con il suo animo quasi incantato, soppesando la linea ed il colore con raffinata distinzione di stile, per cui la luce si a splendore e l’incarnato si rende vivo e sé movente, sì che l’atmosfera che permea il dipinto diviene respiro, a guisa in brezza che si riversa bel paesaggio, che è presenza costantemente integrante del dipinto stesso.
Un ritrattista d’eccezione è, adunque, il Sartini, che ha dell’antico regime dell’arte la solidarietà dell’impianto e il delicatissimo impegno della forma, ed è, nel contempo, e qui sta l’originalità complessa assai attento, che ha del presente l’ansia tormentata di un itinerario che è per sua natura sempre incompiuto: verte infatti sul grande mistero della vita umana. 

Guardando i dipinti di Ulisse Sartini 
RITRATTI: 
Bellezza viva nella gioia del colore. Palpito, anelito dell’essere. 
Trasparenza di toni (armonia) che tocca profondo il cuore. Luce di pupille nell’incanto dell’io. 
Calma gioiosa adombrata di felicità.
Malinconia di dolcezze.
Aure di paesaggi che esaltano e conchiudono il tesoro della vita. Amore tenero e fecondo dell’esecuzione.
Per noi – Donazione doviziosa.
EMBRIOCOSMO: 
Stupore ignoto che vive, parla alla coscienza e grida nella verità del divenire. 
Segno; rappresentazione evolutiva. Materia densa di substrato. 
Colore nella vivacità della cromia.
Gioco della disparità nella nascita del motivo primo.
Concatenazione ad esso.
Dispersione nello spazio di frammenti di vita, che non vivrà. 
Tremolio. Sostanza di colore che si perde nella profondità dell’infinito. 
Balenio di luce, che luce ancora non è. 
Tutto anelito, canto, vibrazione, inno, parola, (musica), pensiero al divenire. 
Armonia del creato increato. 

Uno spazio neutro e prevalentemente oscuro protegge quelle strutture organiche dotate di un chiarore soffuso. 
Ci sovviene perciò la simbologia onirica che assimila l’area priva di luce all’inconscio e l’imprecisione della forma che vi è contenuta alla <<materia prima>> di un processo vitale interiore importantissimo, non ancora chiarito coscientemente. 
Non è difficile scorgervi la nozione di certi contenuti infantili dell’Eros i quali agiscono a livello intuitivo e fantastico, come a volte le macchine di Rorschach inducono a fare, creando associazioni che soltanto un giudizio superficiale può catalogare per casuali.
Ulisse Sartini, come pittore può anche trascurare questo tipo di interpretazione, seguire completamente l’istinto. 
Come uomo non può assistere al processo spontaneo che va formandosi dentro di lui e scegliere di consentirvi o d’ignorarlo, trasformare tutto in una chiarezza anche intellettuale od opporsi a quello che probabilmente egli potrebbe giudicare soltanto uno strano sogno.
Queste immagini sono una specie di domanda incessante che l’artista vede formularsi e riformularsi sotto i suoi occhi durante l’esercizio della pittura: una domanda che viene dall’ignoto psichico difficilmente esprimibile a parole, a cui è possibile rispondere soltanto a patto di acconsentire a udirla serenamene, nella quale un contenuto metafisico si pone come soluzione non stereotipata, per l’adesione alla vita. 

Le chiavi per penetrare queste immagini possono essere molte; e la prima dovrebbe essere quella psicoanalitica; poi le illuminazioni surrealistiche, ma contano soprattutto, la risoluzione in meditata pittura; l’ansia, così attiva nel giovane pittore piacentino, di svelare il segreto delle origini. 

Sartini è pittore noto e nella Mostra Fiorentina conferma puntualmente i valori che hanno dato spazio alla sua notorietà. 
Non che vi abbia aggiunto qualche cosa, tuttavia; ligio alle forme rivisitate in una antologia di espressione Mooriana, Sartini elabora le sue visioni di eremita cercando di cogliere in un fossile di vita la poesia che la riesumazione e la fantasia, insieme combinate, riescano a estrarre da quella materia apparentemente inerte. 

Nella fantasia di Sartini c’è un senso di continua variazione, una liberazione della forma attraverso la deformazione, ci sono soluzioni compositive della costruzione sempre nuove, in indugio nelle curve per accentuare in sintesi certi caratteri plastici ed una tendenza alla monumentalità nell’intersecarsi dei volumi. 
Escluso il simbolo nella sua funzione di riferimento, la sinuosità della linea acquista un’espressione esasperata per formare un’appena definibile massa organica, unica nella sua purezza pesante.
E’ un impegno di deformazione quello di Sartini per concentrare tutto nella impressione prima come indice di verità!
L’oggetto, la composizione, le figure che agiscono con lontane movenze sceniche, accennate in una visione globale sui piani continui come un abbozzo che chiude tutta la forza dell’autore, sono insieme una idealizzazione delle azioni degli uomini e una identificazione con la natura più completa.
Da quei grovigli di forme contorte, accennate nei loro rapporto volumetrici in espansione emerge quell’apparenza di corpi granitici, quell’illusorio, piacevole richiamo ad una sculto-pittura che ripropone forse, nella reinvenzione una realtà in movimento, già cara al nostro futurismo.
Vi è in Sartini una tendenza a srealizzare il reale senza peraltro perderlo, anzi a potenziarlo di significati possibili attingendo nell’inconscio dell’immaginazione un elemento ordinatore con volumi ripetuti secondo simmetrie multiple.
I suoi “corpi-statue” obbediscono alle varie unità temporali intuitive passando poi a quelle memorative e immaginative.
Personalmente ne ho ricevuto un’impressione di solitudine di forme di una dimensione senza tempo in quei rapporti concreti ed esistenziali tra Eros e immaginazione.

La figurativa del pittore Ulisse Sartini, espositore alla galleria <<Schettini Uno>> di via Turati 6, è una inimitabile fusione del corpo umano, della foggia cavallina, dell’uno e dell’altro congiunti come nel mitologico centauro, fusione che si direbbe pietrificata tanto il colore di questo soggetti evoca il colore di pietre scolpite. 
E anche la maniera di modellare in tela prende dalla parte del pittore-scultore. 
Queste forme in tensione elastica, realizzate su ritmi mistilinei e insieme curvilinei sono consegnate dal dal Sartini alla palpabilità ingannevole dei volumi pronunciatamente dipinti.
La mostra nel dare in tele di sicuro pregio è moderna: 
volge d’opera in opera alla riapplicazione di un surrealismo mediato da simboli quanto meno simpatici, svolti su moduli postcubisti che sarebbero senza meno piaciuti ad Arp, che piacerebbero a Moore, alla cui poetica sembra travolgere il giovane e bravo pittore Sartini.

Ulisse Sartini è un nome nuovo di pittore giovane che lo Schettini di Via Turati 6, presenta a Milano. 
E benchè giovane, il pittore, d’origine piacentina, è in possesso di un mestiere pittorico che si vede affinarsi nei diversi quadri. 
In un certo senso, le sue figurazioni richiamano certo ossame spolpato di Moore. 
Da ricordare, infatti, la serie di incisioni e disegni che lo scultore inglese trasse da un bucranio di elefante regalatogli da un amico. 
Sartini dimostra di aver guardato da quella parte e i suoi quadri presentano appunto figurazioni d’osso di misteriosi essere antidiluviali, spolpati e contorti, collocati entro spazi infiniti e deserti, con un gioco di orizzonti remoti che fanno ricordare certo soluzioni spaziali metafisiche: solo che, invece di piazze sognate, questi spazi sono deserti e silenziosi, a volte con luci d’argento da astro spento. 
Un giovane pittore che varrà la pena di tener d’occhio.

Riteniamo che l’artista riesca a soddisfare le sue esigenze con la tavolozza senza forzature, ma con naturalezza, donando anche al pubblico che ammira le sue opere la convinzione che quelle immagini non si muovano nel segno ma diventano parte viva di ciascuno di noi. 
E’ un’ottima riuscita e un merito che è giusto attribuire a questo pittore. 

Ulisse Sartini (Galleria Sacchettini uno).
E’ un giovane pittore tutt’altro che sprovvisto di mezzi pittorici e di metodo ma è soprattutto dotato di un evidente senso plastico. 
Le forme che concreta a “tutto tondo” sulla tela infatti sono autentiche scarnificate sculture di derivazione Mooriana, ambientate in paesaggi cristallini. 
Non manca nelle sue opere un certo edonismo ma non mancano neppure il respiro di una più approfondita dimensione intellettuale. 

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