Mettiamoci nei panni di un artista che, come Ulisse Sartini, sceglie di rappresentare, con gli strumenti e le tecniche della tradizione, il Vero visibile. Di più, immaginiamo un artista che, come lui, decide di mettere in figura i soggetti, gli argomenti e i protagonisti della storia religiosa. Uno dice “Deposizione nel sepolcro” e subito vengono in mente Caravaggio, van derWeyden, Holbein, Rembrant.Dice “Annunciazione” e sfilano davanti a lui i capolavori supremi di Hugo van der Goes, del Beato Angelico, di Tiziano. Dice “Crocifissione” ed ecco emergere Masaccio, Velàsquez, Dalì. Dice “David”, ed ecco Donatello, Verrocchio, Michelangelo, Bernini, affollare di idee e di modelli ogni incipiente facoltà creativa.
Questo è il primo handicap che un pittore come Ulisse Sartini si trova ad affrontare. L’altro handicap, che è piuttosto una porta stretta e tuttavia ineludibile, è quello rappresentato dalla figura, elemento necessario quando si fa arte che ha per argomento i soggetti e i valori di una religione come la nostra. Conviene una precisazione preventiva. Io detesto il binomio “arte sacra”. L’arte quando è vera, è sempre sacra. Quando stupisce di fronte al miracolo del creato e al mistero ontologico delle cose e delle creature, quando si pone di fronte ai supremi interrogativi della vita, del male, della morte, dell’altrove, quando si accosta all’enigma dell’animo umano, l’arte è sacra, è “naturaliter” religiosa. Queste cose non le dico io. Le ha dette con documenti ufficiali del Magistero, quel grande intellettuale del Novecento che è stato papa Paolo VI Montini. La figura è dunque necessaria quando si intende dare voce a messaggi religiosi. E’ necessaria, in modo speciale, in una religione come la nostra che si fonda sulla “Incarnazione”, sullo Spirito che si fa ossa e sangue, sul messaggio che diventa storia di uomini e di donne e quindi accadimenti, incontri, prodigi, parabole. Mi accorgo di avere costruito intorno ad Ulisse Sartini una cintura storica e logica che tuttavia chiede di essere superata, se vogliamo intenderne la specificità artistica. Utilizzare i materiali figurativi della tradizione, come fa Sartini, dispiegando una memoria prodigiosa e una “stupefacente capacità tecnica ”(Sgarbi) è possibile. Altri lo hanno fatto, al termine di altri percorsi culturali e utilizzando altri mezzi espressivi. Penso a Piero Guccione o a Bill Viola. E’ possibile prendere a piene mani dalla lingua antica rielaborandola, trasfigurandola, rendendola comprensibile ed efficace per le donne e per gli uomini del nostro tempo. A patto di non cadere nel citazionismo, che è sterile e sgradevole sempre. A patto di non scivolare nell’intellettualismo evanescente, criptico, disincarnato, scenario altrettanto infausto. Bisognerebbe sapere usare la tradizione figurativa con la stessa naturalezza con cui usiamo la lingua letteraria, uno strumento di comunicazione che sappiamo bene essere stato costruito da Dante e da Petrarca, dal Bembo e dal Manzoni e che tuttavia ci serve per esprimere idee e valori, sentimenti e passioni del nostro tempo. Su questa strada si muove Ulisse Sartini. Entra nella grande tradizione figurativa (in Caravaggio, in Annibale Carracci), la disarticola, la analizza, sembra entrare in competizione con lei (il suo straordinario talento tecnico glielo consente), e poi ce la offre, reinventata, trasfigurata, caratterizzata dal suo specifico genio espressivo.